di Giuseppe Gagliano –
Mentre le bombe cadono su Gaza e le risoluzioni si impantanano nei salotti ovattati delle diplomazie occidentali, il flusso commerciale con Israele procede indisturbato. Dietro le condanne formali, le “profondissime preoccupazioni” e le vaghe promesse di revisione delle relazioni, si cela una verità brutale: il conflitto israelo-palestinese è anche e soprattutto un affare economico. Redditizio. Protetto. Sistemico.
Nel 2024, l’economia israeliana ha movimentato oltre 150 miliardi di dollari in scambi commerciali. Importazioni per 91,5 miliardi e esportazioni per 61,7. Una cifra imponente per un Paese in guerra, che testimonia una connessione strutturale con le economie occidentali. La macchina bellica israeliana, complessa, tecnologicamente avanzata, profondamente interconnessa al sistema produttivo globale, non si nutre soltanto di ideologia. Si alimenta di microchip, motori a reazione, software, componenti ottici, fertilizzanti, sensori. E denaro.
Israele esporta conoscenze militari, tecnologie dual-use, farmaci, minerali rari, droni, sistemi di sorveglianza, cybersecurity. In cambio riceve flussi continui di attrezzature strategiche, finanziamenti diretti e indiretti, cooperazione scientifica. Lo scambio è bilanciato solo in apparenza: è l’Occidente, in particolare l’Europa, a fornire il carburante dell’apparato industriale israeliano.
Dietro le vetrine dei valori e dei diritti umani, le capitali europee tessono accordi di cooperazione che contribuiscono direttamente alla resilienza del sistema militare e tecnologico israeliano. La Francia vende macchinari, sostanze chimiche e software a doppio uso. La Germania esporta veicoli e motori. L’Italia fornisce componenti meccanici ed elettronica. Tutto nel quadro di un accordo di libero scambio UE-Israele tuttora attivo, nonostante le continue violazioni del diritto internazionale da parte dello Stato ebraico.
Vi sono colossi che, direttamente o per mezzo di consociate, intrattengono relazioni economiche con aziende o enti israeliani attivi anche nei territori occupati. Le banche, da parte loro, finanziano fondi tecnologici e start-up israeliane, molte delle quali derivano da spin-off militari.
Non è possibile comprendere la struttura economica israeliana senza riconoscere la centralità dell’apparato militare-industriale. I principali gruppi di difesa – Elbit Systems, Rafael, IAI – sono al tempo stesso fornitori dell’esercito e protagonisti delle esportazioni strategiche. Sistemi di difesa come il Dôme de Fer, tecnologie di riconoscimento biometrico, sorveglianza urbana e intelligence digitale (NSO Group, Pegasus) sono utilizzati tanto sul campo quanto esportati verso regimi “amici” o “clienti”.
In tal senso ogni acquisto di questi sistemi da parte di un paese occidentale si traduce in una legittimazione pratica dell’uso della forza, e in un rafforzamento dell’economia di guerra israeliana.
Le condanne delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele si scontrano con una realtà cinica: le relazioni commerciali con Tel Aviv non si interrompono mai, nemmeno nei momenti più tragici dei conflitti. Gli appelli al “cessate-il-fuoco” convivono con la spedizione di tecnologie militari. Gli inviti alla moderazione si alternano agli investimenti nei laboratori che sviluppano algoritmi per i droni armati.
Le recenti mosse del Regno Unito e dell’Unione Europea, che annunciano revisione o sospensione dei rapporti con Israele, somigliano più a operazioni di facciata che a veri atti politici. Dietro le quinte il business continua. Perché è strategico, perché fa parte di alleanze non scritte, perché la sovranità è da tempo subordinata ai circuiti del profitto.
Nessun cittadino europeo è mai stato consultato sugli accordi commerciali con Israele. Nessun Parlamento ha realmente messo in discussione l’influenza di lobby industriali e militari che operano all’ombra della retorica europeista. I governi firmano intese, finanziano con fondi pubblici (attraverso la BEI o i programmi Horizon Europe), investono in ricerca binazionale. E nel farlo, diventano parte attiva nella dinamica del conflitto.
Non si tratta solo di una questione etica. È un problema di coerenza strategica, di sovranità compromessa, di democrazia esautorata. I cittadini, in nome dei quali si commerciano armi e si firmano protocolli, restano esclusi dal processo decisionale. Presi in ostaggio da una geopolitica cinica, guidata dal capitale e impermeabile al diritto.
Rompere con questa complicità significa non soltanto porre fine alla retorica vuota dei diritti umani, ma riconoscere la priorità della responsabilità politica rispetto al calcolo economico. Significa uscire dagli accordi che legittimano l’occupazione. Interrompere i flussi commerciali con le aziende attive nei territori palestinesi. E soprattutto restituire ai popoli europei la capacità di decidere chi finanziare, chi armare, chi sostenere.
Perché una guerra può essere combattuta anche con i missili. Ma si vince o si perde con i capitali.