di Giuseppe Gagliano –
La Knesset ha approvato una nuova legge che consente la deportazione delle famiglie di sospetti terroristi, nonostante rappresenti un intervento di estrema durezza che ha implicazioni profonde sia sul piano politico che giuridico. Sul piano politico questa misura riflette un inasprimento della politica di sicurezza adottata dal governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu e sostenuto dalla coalizione di destra, in particolare dal Likud e dalle frange più radicali come Otzma Yehudit. L’intento dichiarato è quello di garantire una risposta più severa agli attacchi terroristici, ma dietro questa misura si nasconde anche un tentativo di consolidare il consenso tra i segmenti dell’elettorato più favorevoli a politiche di sicurezza estreme. La legge infatti prevede la possibilità di espellere non solo palestinesi ma anche cittadini israeliani che risiedono all’interno del territorio riconosciuto dallo Stato. L’ampiezza di questa normativa, che consente di deportare parenti di sospetti terroristi qualora abbiano espresso presunti sostegni o simpatia per atti di violenza, introduce una soglia estremamente bassa per giustificare misure così drastiche, alimentando il timore di un utilizzo arbitrario del potere statale.
L’implementazione di questa legge potrebbe anche incidere negativamente sulle relazioni internazionali di Israele, poiché la deportazione di famiglie intere rischia di essere percepita come una forma di repressione su base collettiva. In un contesto già segnato da tensioni tra israeliani e palestinesi, questa mossa potrebbe intensificare le ostilità, soprattutto nelle aree contese come Gerusalemme Est, dove la normativa sarà applicata. Inoltre, la possibilità di espellere cittadini israeliani senza privarli della cittadinanza crea un precedente giuridico ambiguo che mina i principi dello Stato di diritto e dell’uguaglianza dei diritti tra i cittadini dello stesso paese.
Dal punto di vista giuridico questa legge introduce problematiche significative in quanto amplia la portata della responsabilità non solo ai singoli individui accusati di terrorismo, ma anche ai loro familiari, senza che siano previste garanzie adeguate. L’assenza di criteri oggettivi per stabilire cosa costituisca un “sostegno” al terrorismo rende possibile l’applicazione discrezionale da parte delle autorità, potenzialmente trasformando questa norma in uno strumento di repressione politica. La decisione di deportare le famiglie sarà presa in un’udienza presieduta dal ministro dell’Interno, che avrà un termine di 14 giorni per emettere un ordine di espulsione, ma il rischio di abuso di questa discrezionalità è elevato, soprattutto in un contesto in cui il dibattito pubblico è polarizzato e dominato da richieste di maggiore sicurezza.
Inoltre l’applicazione di misure di deportazione contro i residenti di Gerusalemme Est solleva ulteriori problematiche giuridiche legate al diritto internazionale, poiché questa area è considerata territorio occupato secondo la maggior parte delle risoluzioni delle Nazioni Unite. L’espulsione dei residenti locali, che non sono soggetti alle leggi israeliane in quanto palestinesi, potrebbe essere vista come una violazione dei diritti garantiti dalla Convenzione di Ginevra, esponendo Israele a critiche e potenziali sanzioni internazionali. Anche se formalmente la legge prevede che i sospetti abbiano il diritto di difendersi prima che venga emesso un ordine di espulsione, la mancanza di un processo trasparente e di standard giuridici chiari potrebbe compromettere seriamente la credibilità del sistema legale israeliano.
Se questa legge dovesse essere implementata senza essere bloccata dalla Corte Suprema, potrebbe aprire la strada a ulteriori misure repressive che inciderebbero negativamente non solo sui diritti dei palestinesi ma anche su quelli degli stessi cittadini israeliani, creando un precedente che potrebbe essere utilizzato in futuro per giustificare altre limitazioni alle libertà civili.