di Giuseppe Gagliano –
Tra le righe di un rapporto riservato, trapelato sulle colonne del Wall Street Journal, si cela una delle notizie più allarmanti del conflitto in corso tra Israele e Iran: lo scudo difensivo israeliano si sta assottigliando. I missili intercettori del sistema Arrow, progettati per neutralizzare i vettori balistici a lungo raggio, stanno per esaurirsi. E con essi, si assottiglia anche la rassicurante immagine di un Israele invulnerabile agli attacchi esterni.
Le fonti statunitensi, coperte da anonimato ma vicine agli apparati militari, parlano chiaro: Tel Aviv ha ancora una finestra di autonomia difensiva di 10-12 giorni al ritmo attuale degli attacchi missilistici iraniani. Una finestra stretta, angosciante, in cui ogni missile da intercettare diventa una decisione politica oltre che operativa. Già entro fine settimana, secondo quanto riferito da The Washington Post, le autorità israeliane dovranno “scegliere cosa intercettare e cosa no”, in una sorta di triage strategico che stravolge ogni logica di deterrenza preventiva.
Nonostante le dichiarazioni ufficiali delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), “pronte a qualsiasi scenario”, il dato di fatto è che il sistema Arrow è sovraccarico e sottoposto a stress continuo. E a differenza dei precedenti attacchi dell’Iran nell’aprile e ottobre 2024, che avevano colpito principalmente obiettivi militari isolati come la base di Nevatim nel deserto del Negev, i missili del giugno 2025 hanno cambiato paradigma: sono diretti verso i centri urbani.
La nuova strategia iraniana ha preso di mira cuori civili, centri di comando, infrastrutture critiche e simboli nazionali, in un attacco calibrato non solo per colpire ma per umiliare. I risultati parlano da soli.
La censura militare israeliana ha limitato la diffusione dei dati ufficiali, ma l’unità Sanad di al-Jazeera, incrociando fonti open source, immagini satellitari e video sui social, ha ricostruito la mappa della distruzione:
– Tel Aviv: il 14 giugno alcuni missili sono esplosi a 300 metri dal Ministero della Difesa, cuore strategico e simbolico dello Stato israeliano.
– Rehovot: colpito il Weizmann Institute of Science, tra i centri di ricerca scientifica più prestigiosi, noto per la sua collaborazione con l’esercito.
– Ramat Gan, Petah Tikva, Bnei Brak: danni pesanti a quartieri residenziali. Una scuola religiosa distrutta.
– Bat Yam: il bilancio più tragico con 9 morti e circa 200 feriti.
– Haifa: il complesso petrolchimico Bazan, la più grande raffineria del Paese, colpito e costretto alla chiusura.
– Tamra: quattro donne palestinesi della stessa famiglia uccise in una città priva di rifugi antiaerei.
I numeri sono ancora parziali, ma bastano per sollevare interrogativi cruciali: quanto può durare ancora la resistenza israeliana senza compromettere la sicurezza delle sue città? E quanto a lungo si potrà contare sul sostegno militare statunitense prima che esso diventi un intervento diretto.
Lo scenario è chiaro: l’Iran sta mettendo alla prova i limiti della dottrina difensiva israeliana, basata da decenni su una superiorità tecnologica e sull’illusione di un cielo impenetrabile. Ma oggi, i missili che passano oltre lo scudo non sono più anomalie: sono il nuovo standard. E questo modifica profondamente l’equilibrio psicologico del conflitto. Non si tratta solo di numeri, ma di percezione strategica: ogni missile che raggiunge un obiettivo civile erode la fiducia nell’invulnerabilità e alimenta l’idea, pericolosa e diffusa, che Israele non sia più al sicuro nemmeno in casa propria.
Intanto l’opzione di chiedere agli Stati Uniti una fornitura d’emergenza di intercettori è sul tavolo, ma solleva implicazioni complesse: se Washington fornisce armi decisive per la difesa del territorio israeliano, fino a che punto può restare formalmente non belligerante? Una domanda che, in un contesto di escalation, si avvicina sempre più a una soglia di non ritorno.