di Giuseppe Gagliano –
Secondo quanto riferito da The New Arab, il numero dei prigionieri palestinesi effettivamente rilasciati da Israele in base all’accordo mediato dal presidente Donald Trump rappresenta meno del 20% del totale dei detenuti. L’intesa prevedeva la liberazione di circa 2mila palestinesi, tra cui 250 ergastolani e 1.700 persone arrestate senza accuse formali a partire dall’ottobre 2023. Nella pratica, si tratta solo del 17,7% della popolazione carceraria palestinese. Mentre il rilascio degli ultimi prigionieri israeliani è stato celebrato come un trionfo politico e diplomatico, la controparte palestinese si è tradotta in una liberazione parziale, condizionata e umiliante.
Le autorità israeliane hanno imposto restrizioni rigide alle famiglie dei detenuti liberati, vietando manifestazioni di gioia, bandiere e contatti con i media. Alcuni prigionieri sono stati deportati o esiliati, rafforzando l’idea di un rilascio utilizzato come strumento di pressione politica piuttosto che come gesto di distensione. La differenza nel trattamento tra prigionieri israeliani e palestinesi è diventata un simbolo potente della disparità che segna l’intero processo di pace.
Molti dei detenuti liberati sono stati immediatamente ricoverati per ricevere cure mediche: in diversi casi, avevano contratto la scabbia nelle prigioni israeliane. Secondo Arabi 21, ai detenuti infetti era vietato il contatto fisico con i familiari. Le immagini diffuse mostrano corpi coperti da eruzioni cutanee, con molti ex prigionieri costretti a indossare guanti per evitare il contagio. Organizzazioni per i diritti umani denunciano la negligenza deliberata del servizio carcerario israeliano, che avrebbe usato la diffusione della malattia come punizione collettiva.
Nelle carceri israeliane, migliaia di palestinesi sono rinchiusi in celle sovraffollate, con accesso limitato a beni essenziali come sapone, dentifricio e asciugamani puliti. Le testimonianze raccontano di celle trasformate in luoghi di sofferenza e annientamento psicologico, di trasferimenti punitivi e della sistematica negazione di visite da parte di avvocati e organizzazioni internazionali. In questo contesto, la detenzione diventa uno strumento strategico: una leva per esercitare controllo sulla società palestinese e condizionare i negoziati politici.
La scelta di Israele di limitare il rilascio a meno di un quinto dei detenuti rivela la natura asimmetrica degli accordi raggiunti. Tel Aviv ha dimostrato di mantenere saldo il controllo sul ritmo e sulla sostanza dei compromessi, anche in presenza di mediazioni internazionali. Questo squilibrio si inserisce in una logica più ampia: Israele cerca di consolidare la propria posizione negoziale e di mostrare forza interna, mentre la leadership palestinese appare sempre più frammentata e incapace di garantire condizioni migliori per i suoi prigionieri.
La gestione delle detenzioni non è solo una questione umanitaria: è parte integrante della strategia politica israeliana nel quadro più ampio del conflitto israelo-palestinese. La pressione sui detenuti e sulle loro famiglie serve a mantenere alta la tensione interna nei Territori, riducendo la possibilità di mobilitazioni organizzate e indebolendo il tessuto sociale palestinese. Allo stesso tempo, consente a Israele di mostrare ai propri alleati occidentali un’immagine di forza e controllo, fondamentale in una fase in cui la regione è attraversata da nuove dinamiche diplomatiche e di sicurezza.
Mentre le telecamere internazionali si concentrano sui gesti simbolici, la realtà quotidiana dei detenuti palestinesi continua a raccontare una storia diversa. La liberazione parziale, le condizioni disumane e l’uso politico della detenzione mostrano come il conflitto rimanga strutturalmente asimmetrico. Le prigioni diventano così non solo luoghi di reclusione, ma strumenti strategici in una guerra a bassa intensità che non accenna a terminare.












