Israele. Ronen Bar accusa Netanyahu, e lo Stato di diritto vacilla

di Giuseppe Gagliano –

In uno dei momenti più delicati della vita democratica israeliana, l’intervento del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, davanti alla Corte Suprema non è solo una testimonianza: è un atto d’accusa formale contro l’architettura politica del governo Netanyahu. Bar non si limita a denunciare pressioni: afferma sotto giuramento che il Primo Ministro in persona avrebbe chiesto ai servizi segreti interni di operare contro cittadini israeliani pacifici, manifestanti antigovernativi, colpevoli solo di esercitare un diritto costituzionale fondamentale.
A questo, si aggiunge un secondo elemento dirompente: la richiesta, formulata direttamente da Netanyahu, di considerare la volontà del primo ministro superiore a quella dell’Alta corte in caso di crisi costituzionale. Qui non siamo più nel campo della controversia politica. Siamo nel cuore di una possibile torsione autoritaria, con l’esecutivo che pretende di subordinare la giustizia e piegare le agenzie di sicurezza ai propri scopi politici.
Israele non è nuova a tensioni istituzionali. Il confronto tra l’esecutivo e la magistratura è una costante storica della vita politica del Paese, reso ancor più incandescente dalle controversie che da anni coinvolgono Netanyahu stesso, indagato o imputato per corruzione, frode e abuso d’ufficio. Ma questa volta si è varcato un limite: l’utilizzo della sicurezza interna per sorvegliare, intimidire e colpire manifestanti pacifici è pratica che ricorda regimi autoritari, non democrazie parlamentari.
L’idea di un’autorità di governo che, in caso di crisi, possa bypassare i controlli giurisdizionali non è una semplice teoria costituzionale: è l’anticamera del colpo di mano. E se tale proposta proviene da un leader politico accusato in tribunale, la preoccupazione si fa allarme.
Perché Netanyahu avrebbe spinto così in là il suo progetto politico? Per comprenderlo, bisogna leggere questi eventi nel quadro di una strategia complessiva: una progressiva concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo, accompagnata dalla delegittimazione sistematica delle autorità indipendenti.
Negli ultimi anni, il premier ha promosso una contestata riforma della giustizia volta a limitare le prerogative della Corte Suprema, suscitando enormi proteste popolari e la condanna di ampi settori della società civile. L’indebolimento del sistema di pesi e contrappesi sembra essere l’asse portante della visione netanyahuiana dello Stato.
Ma la novità è l’uso delle agenzie di sicurezza come strumento diretto di controllo politico. L’ordine rivolto a Ronen Bar, “obbedisci a me, non ai giudici”, è una vera e propria inversione dell’architettura costituzionale israeliana.
Lo Shin Bet è una delle colonne portanti della sicurezza israeliana. Da sempre opera sul filo sottile tra sicurezza e libertà, ma la sua legittimità si basa sulla neutralità e sull’obbedienza alla legge. Se il capo dello Shin Bet denuncia pubblicamente di essere stato spinto a trasformare l’agenzia in un braccio del potere politico, il danno alla credibilità dello Stato è devastante.
Bar non è un oppositore politico né un magistrato attivista. È un funzionario della sicurezza. La sua testimonianza rompe il silenzio istituzionale proprio perché proviene dall’interno dello Stato profondo israeliano. Ed è proprio questo che rende le sue parole tanto esplosive.
Il futuro di questa crisi dipenderà ora dalla reazione della Corte suprema, già da mesi sotto attacco. Le toghe israeliane, che si trovano ad affrontare una delle sfide più complesse della loro storia, devono decidere se rimuovere o confermare Bar alla guida dello Shin Bet, dopo che Netanyahu ne ha proposto la destituzione in pieno ciclone politico.
Ma più in profondità, la Corte è chiamata a pronunciarsi su una questione vitale: fino a che punto l’esecutivo può forzare i confini istituzionali in nome della propria “visione politica”? È lo stesso nodo che molte democrazie occidentali stanno affrontando, di fronte al ritorno di leader fortemente identitari, personalisti, inclini a scavalcare i limiti della Costituzione.
Le cancellerie occidentali osservano, ma tacciono. Israele resta un partner strategico, soprattutto in un momento in cui gli equilibri in Medio Oriente sono messi alla prova dalla guerra a Gaza, dalla pressione iraniana e dalla debolezza delle autorità palestinesi. Ma l’evidenza che un’alleata storica dell’Occidente stia attraversando un processo di degenerazione democratica dovrebbe suscitare più di qualche interrogativo.
Perché un leader che usa i servizi di sicurezza contro i cittadini pacifici, che intende marginalizzare il potere giudiziario e rafforzare un controllo personale dello Stato, è un rischio non solo per il proprio Paese, ma anche per l’equilibrio dell’intero sistema di alleanze democratiche.
La testimonianza di Ronen Bar è un appello, non solo una denuncia. È il segnale che qualcosa di profondo si è rotto nei meccanismi istituzionali israeliani. La democrazia, ci ricorda questo episodio, non viene distrutta solo da guerre o colpi di Stato, ma anche da piccole forzature quotidiane, da ordini verbali, da silenzi istituzionali.
Se lo Stato di diritto israeliano saprà reagire, questa crisi potrà trasformarsi in un’occasione di chiarimento. Se invece la macchina del potere riuscirà a sopraffare anche chi, come Bar, ha scelto di parlare, allora il rischio è che la democrazia israeliana si trasformi, lentamente ma inesorabilmente, in una democrazia solo di nome