Israele. Trump sposta l’ambasciata a Gerusalemme e apre il vaso di Pandora

di Enrico Oliari –

Pe il presidente Usa Donald Trump la capitale di Israele è Gerusalemme. Lo ha annunciato oggi ufficialmente, affermando che “Gerusalemme capitale è il riconoscimento della realtà. Ho dato istruzioni di muovere l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme”. Già in campagna elettorale, ma anche con la sua elezione, Trump aveva reso nota l’intenzione di spostare l’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, di fatto riconoscendo la città quale capitale dello Stato. Un’impostazione, quella di Trump, in dissonanza con quanto stava facendo l’amministrazione precedente nel tentativo di ricomporre la pace in Medio Oriente, ed anche l’ambasciatore scelto per rappresentare gli Stati Uniti in Israele, l’ebreo ortodosso David Friedman, aveva annunciato di volersi stabilire a Gerusalemme e non a Tel Aviv.
Così Trump ieri ha chiamato il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, per annunciagli ufficialmente lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, procedura che richiederà almeno sei mesi.

Abu Mazen.

Una scelta azzardata quella di Trump, necessaria a ripagare le potenti lobby ebraiche come l’Aipac che lo hanno sostenuto con tutto il loro peso in campagna elettorale, ma va detto che una tale “concessione” ad Israele di fatto autorizza il duro premier Benjamin Netanyahu a considerare tutta la città come capitale dello Stato, forte del sostegno di un paese membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu e per di più con diritto di veto. A prescindere quindi del fatto che Gerusalemme Est è la parte araba della città, ed è capitale della Palestina.
Israele ha sempre considerato anche Gerusalemme Est come parte integrate del proprio territorio: nel 1967, in seguito alla guerra dei Sei Giorni, la parte orientale della città venne occupata dai militari israeliani, come pure la Cisgiordania; nel novembre dello stesso anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la risoluzione 242, non vincolante, che chiedeva il “ritiro delle forze israeliane da territori occupati nel corso del recente conflitto”.
Nel 1980 il parlamento israeliano approvò la cosiddetta “legge fondamentale”, la quale proclamava unilateralmente “Gerusalemme, unita e indivisa (…) capitale di Israele”, ma poco dopo l’Onu con la Risoluzione 478 definì la “legge fondamentale” “nulla e priva di validità»”, nonché “una violazione del diritto internazionale” e un “serio ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente”.
Risale invece al 1995 una legge approvata dal Congresso Usa, il ”Jerusalem Embassy Act”, che prevede il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, ma una clausola della stessa, osservata da tutti i presidenti precedenti a Trump, prevede il rinvio della sua attuazione di sei mesi in sei mesi per “interessi relativi alla sicurezza nazionale”.

Benjamin Netanyahu con Donald Trump.

Anche di recente a Gerusalemme Est, nonostante le proteste dei palestinesi ma anche della comunità internazionale, il governo israeliano ha requisito porzioni di territorio (anche abitato) per costruire unità abitative per gli israeliani, d’altro canto il governo stesso si appoggia anche sul voto dei coloni e sul sostegno delle lobby dei palazzinari.
L’annuncio di ieri ad Abu Mazenha scatenato le cancellerie di mezzo mondo, soprattutto di quello arabo e di quello musulmano in generale, come la Turchia, per la quale il presidente Recep Tayyp Erdogan ha minacciato la chiusura delle relazioni diplomatiche con Israele. Gli ha risposto Netanyahu, il quale gli ha ricordato che “l’epoca dell’Impero ottomano è terminata”. Il portavoce del ministero degli Esteri Emmanuel Nahshon (Netanyahu è anche ministro degli Esteri) ha osservato che “Gerusalemme è la capitale del popolo ebraico da tremila anni e la capitale di Israele da 70, senza riguardo se sia riconosciuta o meno da Erdogan”.
Per la Lega Araba, riunita al Cairo, il segretario generale Ahmed Abul Gheit ha posto l’accento sulla “pericolosità” della decisione di Trump, che “potrebbe avere ripercussioni non solo sulla situazione palestinese ma in tutta la regione araba e islamica”. Gheit ha anche chiesto all’”amministrazione statunitense di evitare qualsiasi iniziativa che possa portare a un cambiamento della situazione giuridica e politica di Gerusalemme”, e lo stesso concetto è stato ripreso dai vari esponenti del mondo arabo, dall’Iraq all’Arabia Saudita all’Egitto.
Nelle ultime ore la linea telefonica di Trump è diventata rovente, con i vari capi di Stato e di governo che lo hanno chiamato per farlo desistere dalla sua iniziativa. Lo ha chiamato anche il presidente russo Vladimir Putin, il quale ha anche telefonato ad Abu Mazen per sottolineare che la Russia “sostiene la ripresa dei colloqui di pace tra Israele e l’Anp, compreso lo status di Gerusalemme”.

E’ tuttavia evidente che se il trasferimento dell’ambasciata verrà attuato si arriverà a scontri non solo diplomatici, a cominciare dai “tre giorni della collera” minacciati dai palestinesi.
Il portavoce di Hamas, Ismail Haniyeh, ha garantito che “saranno superate tutte le linee rosse”, e già si parla di una nuova Intifada: i servizi segreti israeliani ne sono già al corrente e da giorni si tengono riunioni con i vertici di polizia ed esercito in vista di possibili violenze o addirittura di azioni terroristiche. Il dipartimento di Stato Usa ha chiesto hai diplomatici e ai cittadini statunitensi di tenersi alla larga dalla Città Vecchia.
Trump sta, insomma, aprendo il vaso di Pandora, ma sta anche buttando all’aria anni e anni di tentativi di ricucire la pace in Medio Oriente attraverso il progetto dei “Due popoli, due Stati”.
Per l’Ue è intervenuta la Pesc Federica Mogherini, la quale ha fatto notare che “Dall’inizio dell’anno l’Unione Europea ha chiarito le sue aspettative che ci possa essere una riflessione sulle conseguenze che potrebbe avere qualunque decisione o atto unilaterale sullo status di Gerusalemme. Potrebbe avere gravi ripercussioni sull’opinione pubblica in vaste aree del mondo. Il focus dovrebbe perciò restare sugli sforzi per riavviare il processo di pace e sull’evitare qualunque atto che possa minare questi sforzi”.
Il ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano, che ha incontrato alla riunitone Nato il collega statunitense Rex Tillerson, ha dichiarato che “Non si può retrocedere dalla soluzione a due Stati. Guardiamo con grande preoccupazione tutti i fatti e tutte le decisioni che sembrano contraddire la strada che la comunità internazionale ha imboccato da tanto, troppo tempo senza vedere il traguardo”.