Istanbul, Putin e la diplomazia smarrita: la geopolitica che l’Europa non sa più fare

di Riccardo Renzi

Negli ultimi giorni si è acceso un barlume. Fragile, forse destinato a spegnersi, ma comunque presente: si torna a parlare di colloqui diretti tra Russia e Ucraina, dopo oltre tre anni di guerra, rotture e accuse incrociate. Ed è Istanbul, non Bruxelles, non Berlino, non Parigi, la sede scelta per ospitare un primo, cauto avvicinamento.
Ma non ci sarà il leader del Cremlino. Al suo posto, Sergej Lavrov, uno dei più esperti e temuti diplomatici al mondo. Una scelta che può essere letta in due modi: come un segnale di distanza, certo, ma anche come un passo serio e ponderato da parte di Mosca, che non vuole offrire il volto del proprio presidente a una foto di facciata. Perché, come è noto, i leader entrano in scena solo quando i testi dei trattati sono quasi pronti per essere firmati. Fino ad allora, a trattare sono i ministri, i consiglieri, gli emissari.
Putin, dunque, non chiude la porta. Semplicemente, la tiene socchiusa, evitando però di essere trascinato in quello che in Russia viene percepito come un teatro montato ad arte per fini elettorali e propagandistici.
Il cortocircuito diplomatico è evidente: per tre anni, le cancellerie occidentali hanno isolato Mosca, interrompendo qualsiasi forma di dialogo diretto, persino informale. Ora che la Russia propone contatti senza intermediari, e li propone davvero, non limitandosi a dichiarazioni, si pretende da Putin un gesto teatrale immediato, quasi un atto di pentimento pubblico. Con modalità, tempi e condizioni dettate unilateralmente dall’0ccidente.
Eppure, a rivedere il nastro delle ultime settimane, i segnali che arrivano da Mosca parlano di una Russia che, pur senza retrocedere di un millimetro dalle sue posizioni strategiche, tenta di cambiare il registro. A Pasqua, un cessate il fuoco religioso. Poi una seconda proposta, respinta, intorno al 9 maggio, data simbolo per la Russia. Infine, un’apertura a contatti diretti con Kiev, senza mediazioni occidentali.
È stato Volodymyr Zelensky, con una mossa audace, a dichiararsi disponibile a un incontro faccia a faccia con Putin, in contrasto con la stessa costituzione ucraina che gli vieterebbe di negoziare con chi è formalmente un “aggressore”. La sua dichiarazione ha spiazzato molti, compresi gli alleati europei. Donald Trump, dal canto suo, non ha perso tempo a inserirsi nella scena, dichiarando: “Se viene Putin, vengo anch’io”. Mossa elettorale o reale desiderio di fungere da garante? Probabilmente entrambe le cose. Ma quel che conta, è che oggi il gioco si fa su un tavolo diverso.
Chi sta bluffando? Chi fa sul serio? La verità è che entrambi i fronti giocano una partita difficile, cercando di non perdere la faccia. La Russia manda Lavrov, che non è certo un usciere. E potrebbe interpretare questa scelta come il primo test: se anche Zelensky decidesse di non presentarsi e inviasse a sua volta il ministro degli Esteri Kuleba, da Mosca arriverebbe una lettura chiara – si sta trattando davvero.
La presenza di osservatori americani, nella figura di Witkoff e Kellogg, designati da ambienti vicini a Trump, introduce un elemento inedito: l’idea che le trattative siano, in un certo senso, “sotto esame”. Una forma di tutoraggio geopolitico che rispecchia perfettamente la linea trumpiana: non più guerra per procura, ma verifica della volontà reale di pace.
Questa visione, tuttavia, cozza con quella dell’attuale establishment europeo, ancora ancorato a logiche belliche, sentenze morali e una politica estera spesso ideologizzata. Basti pensare alle dichiarazioni di Kaja Kallas, che ha liquidato l’ipotesi di un incontro Putin-Zelensky con un “non credo che Putin oserà farlo”, frase più adatta a un talk show che a un contesto diplomatico. Ma è anche il sintomo della debolezza strutturale dell’Unione Europea: tanti “volenterosi”, poco coordinamento, zero strategia.
E allora non stupisce che sia la Turchia a tornare centrale. Paese chiave, che ha fornito droni all’Ucraina ma non ha applicato le sanzioni alla Russia. Che mantiene aperti i canali con Mosca senza rinunciare al suo legame con l’Occidente. Che parla una lingua diplomatica riconoscibile, priva di retorica eccessiva. Erdogan, pur con i suoi chiaroscuri, ha fatto della politica estera turca un esempio di pragmatismo e autonomia strategica. E non è escluso che, in caso di successo, gli accordi di pace vengano ribattezzati “Accordi di Ankara”, con l’Europa relegata a spettatrice.
Il vero grande assente, infatti, è proprio l’Unione Europea. Non per mancanza di mezzi, ma per deficit culturale e strategico. Ha scelto di chiudere ogni canale con Mosca, di abbandonare la tradizione diplomatica che pure apparteneva a Paesi come Francia, Germania e Italia, riducendosi a corpo esecutivo di una linea atlantica sempre più rigida.
Non c’è traccia di Bruxelles né nella crisi ucraina, dove è percepita come parte belligerante, né nelle altre grandi crisi internazionali: Israele-Palestina, Iran, Siria. Una diplomazia ridotta a dichiarazioni e sanzioni, incapace di farsi interlocutore. Una potenza che parla come uno Stato, ma che Stato non è.
La distanza tra le parti resta abissale. La Russia pretende il riconoscimento delle sue conquiste territoriali come base per trattare. L’Ucraina, dal canto suo, non può cedere senza apparire sconfitta. I compromessi possibili sembrano pochi, e difficilissimi da far accettare alle rispettive opinioni pubbliche.
Eppure, qualcosa si muove. Nonostante tutto. E, al di là dei simboli e delle presenze, vale la pena osservare cosa accadrà giovedì a Istanbul. Perché se il mondo non è in codice binario, è anche vero che i segnali di pace, anche quando imperfetti, sono rari e preziosi. E devono essere colti con intelligenza, non con pregiudizio.
La geopolitica non è una scienza esatta, ma una forma di arte complessa. Istanbul potrebbe non essere il teatro di una svolta, ma è un primo test. E se davvero si vuole la pace, allora bisogna iniziare a negoziare sul serio. Con realismo, senza illusioni, ma anche senza la tentazione di demonizzare chi si siede dall’altra parte del tavolo. Perché l’alternativa – l’eterna guerra di logoramento, la diplomazia fallita, l’Europa muta, non è solo tragica. È soprattutto inutile.