
di Giuseppe Gagliano –
Nella notte del 6 maggio l’India ha lanciato l’Operazione Sindoor, un’azione militare mirata contro infrastrutture considerate terroristiche in Pakistan e nel Jammu e Kashmir occupato dal Pakistan (PoK). Il nome, ispirato al sindoor cioè alla polvere vermiglia tradizionale usata dalle donne hindu sposate, simbolo di matrimonio e la cui assenza evoca la vedovanza, porta con sé un carico simbolico pesante: riflette il lutto nazionale per l’attentato di Pahalgam del 22 aprile, in cui 26 persone, di cui 25 turisti indiani e un nepalese, hanno perso la vita.
Confermata ufficialmente dal Ministero della Difesa indiano alle 1:44 di oggi, l’Operazione Sindoor aveva l’obiettivo di distruggere infrastrutture terroristiche coinvolte nella pianificazione di attacchi transfrontalieri, in particolare quello di Pahalgam. Definita come “mirata, misurata e non escalationista”, l’operazione ha evitato obiettivi civili e infrastrutture militari convenzionali, concentrandosi su nove siti legati ad attività terroristiche, presumibilmente campi di addestramento del gruppo Lashkar-e-Taiba (LeT). Sebbene le località esatte non siano state rese note, si ritiene che gli obiettivi fossero nelle aree di Kotli, Muzaffarabad e Bahawalpur.
Autorizzata dal Primo Ministro Narendra Modi, che aveva garantito ai vertici militari “piena libertà operativa”, l’operazione è stata preceduta da riunioni ad alto livello con il Ministro della Difesa Rajnath Singh, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Ajit Doval e i comandanti delle Forze Armate. In un comunicato, il Ministero della Difesa ha dichiarato: “Poco fa, le Forze Armate Indiane hanno lanciato l’Operazione Sindoor, colpendo infrastrutture terroristiche in Pakistan e nel Jammu e Kashmir occupato dal Pakistan, da dove sono stati pianificati e diretti attacchi terroristici contro l’India.”
L’attentato del 22 aprile, avvenuto nella valle di Baisaran vicino a Pahalgam, è stato di una violenza rara: 26 civili hindu, tra cui un operatore musulmano locale di passeggiate a cavallo, sono stati uccisi. Considerato l’attacco più sanguinoso contro civili indiani dai fatti di Mumbai del 2008, è stato inizialmente rivendicato dal Fronte della Resistenza (TRF), affiliato a LeT, che in seguito ha ritrattato la rivendicazione. Tuttavia, l’intelligence indiana ha collegato l’attacco a infrastrutture terroristiche in territorio pakistano, citando tracce digitali che conducono a rifugi sicuri a Muzaffarabad e Karachi. Tre attentatori, due dei quali cittadini pakistani, sono stati identificati come militanti di LeT.
L’attentato ha inferto un duro colpo alle relazioni bilaterali, già tese. L’India ha espulso diplomatici pakistani, sospeso il Trattato sulle Acque dell’Indo del 1960, revocato visti e chiuso i valichi di frontiera. Entrambi i Paesi hanno segnalato violazioni della Linea di Controllo (LoC) il 28 aprile e tra il 2 e il 3 maggio, alimentando timori di un conflitto aperto. Il Pakistan, pur negando ogni coinvolgimento, ha richiesto un’indagine neutrale, avvertendo però che un’azione militare indiana avrebbe provocato una risposta “decisa”.
L’Operazione Sindoor si inserisce in una serie di risposte indiane mirate al terrorismo transfrontaliero, come le operazioni chirurgiche del 2016 dopo l’attacco di Uri e il bombardamento di Balakot nel 2019 dopo Pulwama. Come in passato, il Pakistan ha minimizzato l’impatto dell’operazione, negando ogni responsabilità.
Tuttavia questa azione militare, pur presentata come limitata, riaccende le tensioni in una regione dove ogni scintilla rischia di innescare un incendio. Il Consiglio di Sicurezza, riunito il 5 maggio per discutere della crisi, rimane diviso, mentre lo spettro di un conflitto nucleare incombe.
Il conflitto tra India e Pakistan sul Jammu e Kashmir non è solo una disputa territoriale: è una ferita storica che sanguina da quasi ottant’anni, un intreccio di ambizioni nazionaliste, promesse tradite e rivalità geopolitiche che hanno trasformato una regione di straordinaria bellezza in un campo di battaglia perpetuo. Per capire perché, nel 2025, il Kashmir continua a infiammare gli animi, bisogna tornare al 1947, alla caotica partizione dell’India britannica, che diede vita a India e Pakistan.
Quando l’Impero britannico, stremato dalla Seconda guerra mondiale, abbandonò il subcontinente, la partizione fu un atto brutale: confini tracciati frettolosamente, comunità spezzate, milioni di sfollati e un’ondata di violenze settarie che costò centinaia di migliaia di vite. L’India, a maggioranza hindu, e il Pakistan, creato come patria per i musulmani, nacquero come nemici. Ma il Kashmir rappresentava un’anomalia: una regione a maggioranza musulmana governata da un maharaja hindu, Hari Singh, che sognava l’indipendenza.
Quel sogno durò poco. Nell’ottobre 1947, tribù pashtun provenienti dal Pakistan, sostenute da milizie e, secondo molti, da elementi dell’esercito pakistano, invasero il Kashmir, puntando su Srinagar. Spaventato, Hari Singh chiese aiuto all’India, cedendo il suo regno a Nuova Delhi in cambio. L’India inviò truppe, dando il via alla prima guerra indo-pakistana. Nel 1949, un cessate il fuoco lasciò il Kashmir diviso: circa due terzi sotto il controllo indiano, il resto amministrato dal Pakistan. La Linea di Controllo (LoC) divenne una frontiera di fatto, ma mai un confine ufficiale.
Le Nazioni Unite, allora giovani e piene di speranze, cercarono di mediare. Con una serie di risoluzioni, il Consiglio di Sicurezza chiese un plebiscito per lasciare che il popolo del Kashmir decidesse il proprio destino: India, Pakistan o indipendenza. Quel voto non si tenne mai. L’India, che vedeva nel Kashmir un pilastro della sua identità laica e multietnica, temeva di perdere una regione musulmana. Il Pakistan, nato come baluardo dell’islam, considerava il Kashmir una causa sacra, un completamento della sua ragion d’essere. Entrambi i Paesi si arroccarono, trasformando la regione in un simbolo: per l’India, della sua unità; per il Pakistan, della sua lotta contro l’egemonia indiana.
Le decenni successivi furono segnati da guerre e crisi. Nel 1965, il Pakistan lanciò l’Operazione Gibilterra, infiltrando combattenti per scatenare una rivolta cachemira. Il fallimento portò a una seconda guerra, senza esiti decisivi. Nel 1971, la terza guerra, legata alla secessione del Bangladesh, umiliò il Pakistan, ma non risolse la questione del Kashmir. L’Accordo di Simla del 1972, firmato da Indira Gandhi e Zulfikar Ali Bhutto, cercò di stabilizzare i rapporti, trasformando la LoC in una linea di demarcazione semi-ufficiale. Ma le braci restavano vive.
Negli anni ’80, il conflitto cambiò volto. In India, le elezioni truccate del 1987 nel Jammu e Kashmir alimentarono rabbia e alienazione tra la popolazione locale, già frustrata da un’amministrazione percepita come oppressiva. Giovani cachemiri presero le armi, spesso addestrati e finanziati dal Pakistan, che vide nell’insurrezione un’occasione per indebolire l’India. Gruppi come Lashkar-e-Taiba emersero in questo periodo, mescolando jihadismo e nazionalismo. L’India rispose con una repressione durissima, schierando centinaia di migliaia di truppe. Il Kashmir divenne un’occupazione militare di fatto, segnata da coprifuoco, sparizioni forzate e accuse di violazioni dei diritti umani.
Il Pakistan, però, non fu solo un burattinaio: pagò un prezzo. Il sostegno ai militanti radicalizzò frange interne, e i gruppi jihadisti, inizialmente strumenti di politica estera, iniziarono a minacciare la stabilità pakistana. Il Kashmir si trasformò anche in un’arena di competizione globale: la Cina, alleata del Pakistan, consolidò il controllo sull’Aksai Chin, conteso con l’India, mentre gli Stati Uniti oscillavano tra i due rivali.
L’avvento delle armi nucleari, con i test del 1998, rese il Kashmir una minaccia globale. Ogni crisi – dagli attentati di Mumbai nel 2008, attribuiti a LeT, alla revoca dell’autonomia cachemira nel 2019 – portava con sé il rischio di un’escalation incontrollabile. La decisione di Narendra Modi di abolire l’articolo 370, che garantiva al Kashmir una semi-autonomia, fu un punto di svolta: per l’India, un atto di sovranità; per il Pakistan e molti cachemiri, una provocazione colonialista.
Oggi, nel 2025, il Kashmir resta un nodo gordiano. Frutto di una decolonizzazione mal risolta, di nazionalismi inconciliabili e di una popolazione intrappolata tra due fuochi, sfugge alle soluzioni internazionali. Ogni attentato, ogni scontro lungo la LoC, ogni minaccia nucleare è un’eco di quel 1947, quando una linea su una mappa trasformò una terra di laghi e montagne in un eterno campo di battaglia. Con l’Operazione Sindoor, l’India dimostra la sua risolutezza, ma il mondo trattiene il fiato, consapevole che un passo falso potrebbe incendiare la regione, e non solo.