di Giuseppe Gagliano –
Il Kirghizistan, un tempo celebrato come l’unica democrazia dell’Asia centrale, è ormai entrato in una fase di autoritarismo conclamato. La decisione del tribunale di bandire tre delle principali testate indipendenti del Paese , cioè Kloop, Temirov Live e AitAit Dese, con l’accusa di “estremismo”, non è solo un atto di censura, ma un segnale politico preciso: la libertà di stampa è diventata un ostacolo al consolidamento del potere del presidente Sadyr Japarov. L’ex “Paese delle rivoluzioni di piazza”, dove le proteste popolari avevano più volte rovesciato i governi, oggi si allinea al modello delle autocrazie regionali, più vicine a Mosca che a Bruxelles.
Il tempismo della decisione non è casuale. A poche settimane dalle elezioni parlamentari anticipate del 30 novembre, il governo mira a neutralizzare ogni voce critica. Gli organi d’informazione indipendenti, che da anni denunciano la corruzione e le derive populiste del potere, vengono liquidati come “minacce alla sicurezza nazionale”. La nuova legge sui media, approvata ad agosto, impone a tutte le testate di registrarsi presso le autorità e concede allo Stato il diritto di oscurare chi non si conforma. Il giornalismo investigativo di Bolot Temirov, da tempo nel mirino del regime, diventa così un simbolo di resistenza civile, ma anche di isolamento: il dissenso viene silenziato non con la violenza, ma con la legalità costruita ad arte.
Paradossalmente, la stretta politica arriva in un momento di prosperità economica. Dall’inizio della guerra in Ucraina, il Kirghizistan ha beneficiato della deviazione dei flussi commerciali verso la Russia, diventando un nodo di transito per beni elusivi delle sanzioni occidentali. Il PIL è cresciuto del 10% in un solo anno, grazie anche alle rimesse dei lavoratori migranti e alla nascita di nuove imprese legate all’import-export verso Mosca. Ma questa crescita, sostenuta da canali informali e dal contrabbando tecnologico, ha un prezzo: la dipendenza totale dal Cremlino e il rischio di sanzioni secondarie. Bruxelles e Washington hanno già colpito due banche kirghise e una stablecoin ancorata al rublo, accusandole di agevolare l’economia di guerra russa. In risposta, Bishkek parla di “pressione unilaterale” e di “ingerenza negli affari interni”. È la stessa retorica che si ascolta a Mosca o a Minsk.
Dietro la facciata di fedeltà a Mosca, però, Japarov tenta di bilanciare le alleanze. Mentre il Paese critica le sanzioni europee, partecipa attivamente al prossimo incontro dei leader centroasiatici con Donald Trump, previsto a Washington il 6 novembre. Una mossa che rivela la logica del doppio binario: restare nell’orbita economica russa, ma cercare protezione politica dagli Stati Uniti. L’Asia centrale, in fondo, è oggi un campo di battaglia silenzioso tra Russia, Cina e America. Pechino cerca di sedurre l’Uzbekistan e il Kazakistan con la Nuova Via della Seta, Washington tenta di consolidare partnership economiche e militari, mentre Mosca difende la sua influenza attraverso reti finanziarie e di sicurezza. Il Kirghizistan, nel mezzo, sfrutta questa competizione per guadagnare margini di manovra, ma al costo di sacrificare la democrazia interna.
La censura dei media non è solo un affare interno: è parte di una strategia geopolitica. Controllare la narrativa significa controllare la percezione del potere. In una regione dove le élite sono giudicate più per la loro lealtà che per la loro trasparenza, reprimere il giornalismo indipendente diventa una forma di diplomazia preventiva. Il messaggio è chiaro: chi critica mette a rischio la stabilità, e chi parla troppo favorisce l’Occidente. Ma la stabilità costruita sul silenzio è fragile. Il Kirghizistan di Japarov si sta trasformando in un satellite politico, economicamente prospero ma moralmente impoverito. E come accade spesso nelle autocrazie, la censura non ferma la crisi: la rimanda, la occulta, e la prepara.












