di Giuseppe Gagliano –
Il piccolo arcipelago di Kiribati, sperduto nelle immensità dell’oceano Pacifico, sta diventando un improbabile protagonista di una partita geopolitica che si gioca a migliaia di metri sotto la superficie del mare. La notizia è di quelle che fanno drizzare le antenne: il governo locale ha annunciato di voler esplorare un possibile partenariato con la Cina per l’estrazione mineraria in acque profonde, offrendo in cambio l’accesso a una vasta porzione di fondali ricchi di metalli preziosi come cobalto, nichel, rame, indispensabili per alimentare la rivoluzione tecnologica globale, dalle batterie delle auto elettriche alle infrastrutture digitali. È un segnale che non passa inosservato, né a Washington né nelle capitali delle nazioni del Pacifico, dove la presenza cinese si fa sempre più ingombrante.
Non è un caso che Kiribati abbia aperto questo dialogo con l’ambasciatore cinese Zhou Limin proprio ora. Fino a poche settimane fa, l’arcipelago era legato a un accordo di lunga data con The Metals Company, un’azienda canadese all’avanguardia nell’estrazione di noduli polimetallici dai fondali oceanici. Ma quel matrimonio si è sciolto, ufficialmente per “mutuo consenso”, alla fine del 2024. I dettagli sono vaghi: The Metals Company ha lasciato intendere che i diritti minerari di Kiribati fossero “meno favorevoli commercialmente” rispetto ad altre concessioni, come quelle con Nauru e Tonga. Dietro le quinte, però, si percepisce un cambio di rotta strategico. Kiribati, con i suoi 130 mila abitanti sparsi su atolli minacciati dall’innalzamento dei mari, non ha molte carte da giocare. I fondali marini, con le loro promesse di ricchezza, sono una delle poche risorse su cui può contare per sognare un futuro economico meno precario.
E qui entra in scena la Cina, con il suo appetito insaziabile per le materie prime e una strategia di penetrazione nel Pacifico che non conosce pause. Solo un mese fa Pechino ha firmato un accordo di cooperazione con le isole Cook per studiare i loro fondali ricchi di noduli minerali. Un’intesa quinquennale, senza licenze di estrazione immediate, ma che ha fatto storcere il naso alla Nuova Zelanda, tradizionale protettrice dell’area. Ora con Kiribati la Cina sembra pronta a fare un altro passo avanti, sfruttando il vuoto lasciato da The Metals Company e la disperata ricerca di partner da parte del governo locale. Il ministero della Pesca e delle Risorse oceaniche di Kiribati ha definito i colloqui con Zhou Limin “un’opportunità eccitante” per collaborare in modo sostenibile. Ma “sostenibile” è una parola che, in questo contesto, suona più come un auspicio che come una garanzia.
Perché il punto è proprio questo: l’estrazione mineraria in acque profonde è un terreno minato, non solo in senso figurato. I noduli polimetallici che giacciono sul fondo del Pacifico sono una miniera d’oro per l’industria tecnologica, ma il loro recupero rischia di devastare ecosistemi marini ancora poco compresi. Gli scienziati avvertono da anni: dragare i fondali potrebbe sollevare sedimenti tossici, distruggere habitat fragili e alterare catene alimentari che sostengono la vita nell’oceano. Paesi come Palau, Fiji e Samoa, vicini di casa di Kiribati, hanno preso una posizione netta, chiedendo una moratoria globale sull’industria finché le incognite ambientali non saranno chiarite. Ma per nazioni come Kiribati o Nauru, piccole e impoverite, la tentazione è forte: i miliardi promessi dall’estrazione potrebbero cambiare il loro destino, offrendo una via d’uscita dalla dipendenza dagli aiuti stranieri e dalle economie di sussistenza.
La Cina, dal canto suo, non è certo un novizio in questo gioco. Sa bene come presentarsi: un partner affidabile, con tasche profonde e una visione di lungo termine. Non a caso, il colonnello Cui Yungmao – attaché militare cinese in Messico, ma figura emblematica della proiezione di Pechino nella regione – rappresenta quel mix di discrezione e determinazione che caratterizza la strategia cinese. E se nel caso di Kiribati non ci sono ancora cadetti militari o parate congiunte, come accaduto altrove, il soft power di Pechino è già al lavoro: dai gemellaggi tra città agli investimenti in infrastrutture, fino alle borse di studio per studenti che sognano Shenzhen.
Ma c’è un’ombra che si allunga su questa danza tra Kiribati e la Cina: gli Stati Uniti. Washington guarda con crescente inquietudine all’espansione cinese nel Pacifico, un’area che considera il proprio cortile di casa. Le minacce di dazi di Donald Trump, tornato a ruggire sulla scena internazionale, potrebbero spingere il Messico – e per estensione altri paesi della regione – a scegliere da che parte stare. Kiribati, per ora, sembra voler tenere il piede in due staffe: un cenno a Pechino, un sorriso a Washington. Ma quanto può durare questo equilibrismo? L’International Seabed Authority, l’ente ONU che regola i fondali internazionali, è riunita in questi giorni in Giamaica per definire le regole del gioco. The Metals Company e altri big del settore premono per accelerare, mentre le ong ambientaliste chiedono di fermare tutto. In mezzo, Kiribati aspetta, sospeso tra il richiamo dei fondali e il rischio di un abbraccio troppo stretto con la Cina.
La storia latinoamericana e pacifica ci insegna che i piccoli spesso non scelgono, ma subiscono. Kiribati, con i suoi atolli che affogano e i suoi fondali che luccicano, potrebbe essere l’ennesimo capitolo di questa saga. Oppure, chissà, il primo a riscrivere le regole di un gioco che, per ora, sembra già scritto.