La Casa Bianca e le sue dottrine

Una storia “ideologica” dei presidenti Usa.

di Gianluca Vivacqua

Fra poche settimane gli Stati Uniti voteranno per eleggere il loro 46mo presidente. La storia degli inquilini della Casa Bianca è anche quella di una serie di dottrine relative alla politica estera che hanno avuto un impatto significativo, spesso determinante, sulla storia del continente americano e su quella mondiale. Proviamo a ripercorrere più di due secoli di epopea a stelle e strisce attraverso i grandi enunciati che contengono le linee in base alle quali gli Usa sono diventati l’ago della bilancia politica internazionale. E abbiamo il vantaggio di poter accorciare o raggruppare diversi capitoli, a nostra discrezione.

Dottrina Monroe (“L’America agli americani”). James Monroe arrivò alla Casa Bianca nel 1816, dopo quattro padri della patria, tutti firmatari della dichiarazione d’indipendenza di Philadelphia del 1776 (Washington, Adams, Jefferson e Madison), e vi rimase fino al 1825. La sua dottrina fu formulata nel 1823, cioè quando le rivoluzioni dei paesi latinoamericani per liberarsi dal dominio spagnolo – molte delle quali trovarono ispirazione proprio dalla rivoluzione nordamericana del 1775-83 – si erano appena concluse. Monroe intendeva lanciare un messaggio chiaro alle grandi potenze coloniali della vecchia Europa: nessuna nuova ingerenza europea, per il futuro, sarebbe stata tollerata in America, e gli Stati Uniti non avrebbero mancato di assumere il ruolo di paladini dell’indipendenza di ogni altro stato del loro continente. Gli Usa, d’altro canto, accettavano di buon grado di disinteressarsi delle questioni del Vecchio Continente. In questa fase, che durerà molti altri decenni ancora ed è paragonabile a quella della storia romana proto-repubblicana (dalle guerre sanitiche a quelle puniche), gli Stati Uniti (che oltretutto erano bel lungi dal poter definirsi una realtà territoriale definita) puntano dunque a consolidarsi come potenza egemone, prima di tutto in senso morale, in casa loro, cioè nel loro stesso continente.

Dottrina Roosevelt (“Stante la dottrina Monroe, comportamenti cronici sbagliati nel continente americano richiedono l’intervento di polizia internazionale da parte di una nazione civilizzata”). Siamo nel 1904 e Theodore Roosevelt è da tre anni il 26° presidente Usa: a fargli varcare la soglia del n. 1600 di Pennsylvania Avenue era stata in realtà la pistola di un anarchico, che aveva assassinato il presidente titolare, McKinley, e aperto le porte della successione al suo vice che era, appunto, Roosevelt. McKinley diventava così il secondo presidente nella storia Usa a venire assassinato, dopo Lincoln. Questi, nei più di settant’anni che erano intercorsi dalla fine della presidenza Monroe all’era Roosevelt, aveva dovuto gestire il periodo più critico dalla nascita della Federazione, una sanguinosa guerra civile che si era protratta per quasi cinque anni dal 1861 al 1865. Intanto gli Usa avevano ingrandito di molto il loro territorio nazionale, vuoi grazie ad acquisizioni pacifiche (a pagamento) vuoi grazie a conflitti con paesi confinanti vuoi grazie all’espansione nell’ovest ancora inesplorato (e a spese delle popolazioni indigene), e ovviamente aumentato la loro influenza nel resto del Nuovo Mondo. Non solo: dopo la vittoriosa guerra contro la Spagna del 1898 (con McKinley alla Casa Bianca) avevano acquisito anche Porto Rico, Filippine e Hawaii, oltre a estendere il loro dominio di fatto su Cuba. Conflitti con la Spagna il governo degli Stati Federati ne aveva già fatto in passato, ma per allargare il proprio spazio vitale; quella invece era la prima volta che entrava in guerra per assicurarsi conquiste da stato imperialista. Il gran suggeritore di quello scontro era stato proprio Roosevelt che, scardinati gli schemi dell’ideologia monroviana già da vicepresidente, alla guida dell’Amministrazione continuò a lavorare per superarli e mandarli in archivio: in pratica in America il “protettorato ideale” affermato da Monroe diventava un protettorato effettivo, militare. Ora gli Usa – giunti a un’importante svolta, come Roma dopo lo scontro con Cartagine ei regni ellenistici – potevano permettersi addirittura di destabilizzare politicamente alcune aree del continente al fine di tutelare i propri interessi. È proprio quel che successe in Colombia, dove il governo di Washington favorì e sostenne con le armi l’indipendenza della regione di Panama, così da poter agevolare la realizzazione dell’omonimo Canale. Questo tipo di politica estremamente aggressiva e interventista contiene i principi di base che gli Stati Uniti, ormai diventati una superpotenza mondiale, avrebbero seguito nel lungo periodo della guerra fredda allorché dovettero appoggiare, in America e nei quattro angoli del globo, ogni governo e ogni movimento che potesse andare nella direzione del filoamericanismo. Contemporaneamente Roosevelt puntava anche a far uscire gli Usa dall’isolamento internazionale, accreditandoli come grandi negoziatori: lo fece quando scoppiò la crisi venezuelana del 1902-03, che fu l’ultima grande occasione in cui degli stati europei poterono minacciare un Paese americano e, oltre Atlantico, quando favorì una decisiva mediazione diplomatica tra le due parti in lotta nella guerra russo-giapponese (1905) e si ritagliò un ruolo significativo nel corso della conferenza di Algeciras, che chiuse la questione marocchina (1906). La dottrina Roosevelt viene più correttamente chiamata corollario Roosevelt (alla dottrina Monroe), e fu enunciata proprio in occasione della crisi venezuelana per rilanciare, almeno a parole, il messaggio di Monroe (del resto era dai tempi di quest’ultimo che una presenza militare europea non si faceva sentire in America, a parte le potenze coloniali che, come la Spagna, vi avevano mantenuto dei possedimenti). Popolarmente viene anche chiamata “politica del grosso bastone” giacché di regola, nella sua attuazione, dietro la proposta diplomatica si celava la minaccia dell’uso della forza.

Dottrina Truman (“Gli Stati Uniti si considereranno direttamente attaccati qualora uno dei paesi loro alleati sarà stato attaccato”). Più che con la sua politica di potenza esercitata sul continente, Roosevelt aveva aperto delle praterie col suo attivismo internazionale. Gli Usa, se sul piano interno dovettero affrontare, negli anni 20 del Novecento, la più spaventosa crisi economica dalla loro fondazione, su quello internazionale, proprio a cavallo di quella crisi, parteciparono per ben due volte a conflitti nati e sviluppatisi in Europa e nel Mediterraneo, per poi estendersi anche all’Asia; e, contribuendo in modo sempre risolutivo alla vittoria dei loro alleati, finirono col conquistarsi il ruolo di arbitri delle sorti di tutto il mondo occidentale. Una superpotenza, insomma, come la Roma dell’epoca augustea, a cui spettava il compito di assicurare protezione non solo al continente con cui si identificava ma anche ai Paesi d’oltreoceano che sotto l’egida delle sue armi e dei suoi ordinamenti tornavano a prosperare nella libertà. Dall’altra parte c’è l’altra grande vincitrice dell’ultima guerra intercontinentale, l’Unione Sovietica, che rappresentava un modello politico ed economico opposto al suo, quello comunista. Ora, nella fase storica nota come “guerra fredda”, la guerra a distanza, mai dichiarata ma costantemente incombente, lo scontro era tutto fra quei due titani, e anche solo la conquista di una posizione in più da parte di uno dei contendenti avrebbe significato compromettere l’intero equilibrio mondiale. Di qui la facile, quasi intuitiva estensione del concetto di “alleati”, che non erano tanto quelli su cui si poteva già contare, quanto quelli che era ancora necessario procurarsi: in ogni parte dell’orbe terracqueo, immenso teatro di uno sforzo di compensazione reciproca senza limiti e senza sosta. Ecco perché la dottrina Truman, enunciata nel 1947, sembra quasi sottintendere un altro basilare principio teorico, quello del “bilanciamento globale delle forze”: Harry S. Truman, 33° presidente Usa, l’uomo che era arrivato all’improvviso nello Studio Ovale come Theodore Roosevelt e aveva schiacciato il Giappone con una doppia bomba atomica, vi si attenne fino alla fine. Così, se da un lato legava i soci dell’Occidente europeo più fortemente agli Stati Uniti con la creazione del Patto Atlantico (e Mosca rispose facendo il Patto di Varsavia), dall’altro inseguiva l’Unione Sovietica fino in Corea nella sua corsa a crearsi uno spazio di influenza in più. Da un altro punto di vista, si può anche osservare che lo zelo sovrumano dell’amministrazione Truman nel controbilanciare il Grande Nemico dell’Est compensava anche il sostanziale “rasserenamento” dell’impegno di Washington nel continente, in ossequio alla nuova linea inaugurata dal predecessore di Truman, Franklin Delano Roosevelt (imparentato con Theodore), la cosiddetta “politica del buon vicinato”.

Dottrina Eisenhower (“Gli Stati Uniti offriranno il loro aiuto armato a qualsiasi Paese del Medio Oriente lo richieda, purché aggredito”). Sulla falsariga della dottrina Truman e del suo sotto-principio, il bilanciamento globale, si muoveranno tutti gli altri presidenti dell’era della guerra fredda. Gli Stati Uniti, ormai nel pieno di quella fase imperiale che dura ancora oggi, entrano a gamba tesa negli affari levantini nel ’48 sostenendo caldamente la nascita dello stato ebraico d’Israele, a cui poi – a partire dagli anni ’60 – avrebbero anche assicurato un regolare rifornimento di armi. La creazione – e per così dire – l’imposizione di uno stato amico ma etnicamente alieno nel contesto di una regione dominata ormai da secoli dall’elemento arabo, se da un lato procurava a Washington, in prospettiva, un utile avamposto su uno scacchiere insidioso e che le era ancora poco noto, dall’altro creava, nell’immediato, una ferita profonda in Medioriente, e un fronte di tensioni polemogene che tante proposte negoziali non sono riuscite ancora a normalizzare. Ma al tempo in cui l’ex comandante in capo delle forze alleate in Occidente, il generale Dwight L,. Eisenhower, succeduto a Truman nel ’53, enunciava la sua linea per la politica orientale la questione israelo-palestinese era appena ai suoi inizi. Eravamo nel ’57 e un anno prima c’era stata la crisi di Suez: l’Egitto era stato attaccato congiuntamente da Israele, Francia e Inghilterra: queste ultime due erano desiderose di riprendere il controllo del canale di Suez, mentre Israele voleva espandersi nella regione del Sinai. L’Unione Sovietica minacciò di intervenire a favore dell’Egitto e di Nasser che, nonostante facesse parte del fronte dei non allineati (il “Terzo mondo”), con il suo panarabismo strizzava l’occhio ai modelli socialisti. A quel punto gli Stati Uniti, per non allargare il conflitto, si trovarono costretti a intervenire anch’essi per esigere un cessate il fuoco dalle due ex potenze occidentali. Ma Eisenhower non aveva dimenticato come Mosca fosse a un passo dal concretare la sua minaccia bellica, sul fronte mediorientale; così, un anno dopo la crisi, pensò bene di lanciare un proclama per la formazione di un fronte di stati filo-americani in quella delicata regione. La politica orientale Usa, in funzione antirussa, era ufficialmente inaugurata, non ancora quella più fortemente filo-israeliana, però, che avrebbe avuto una decisiva accelerazione con Kennedy e con Johnson.

Dottrina Kennedy (“Fermare l’avanzata del comunismo sul suolo americano”). Se la Guerra fredda continuava ad essere una tele-guerra, era pur vero che, dal ’58, la sorprendente rivoluzione cubana aveva bruciato parecchi chilometri tra Washington e Mosca. Due anni dopo alla presidenza degli Stati Uniti era arrivato un carismatico giovane leader democratico, proveniente da una famiglia di origini irlandesi, cattolicissima: John Fitzgerald Kennedy. Aveva 43 anni e alle elezioni era riuscito a spuntarla sul favoritissimo della vigilia, Richard Nixon, il vice di Eisenhower. Fu lui, 35mo successore di Washington, a dover gestire un pericolo comunista ormai arrivato quasi davanti a casa: il suo predecessore Eisenhower pensava di avergli lasciato in eredità la chiave per risolvere il problema, un’operazione sotto copertura passata alla storia come invasione della baia dei Porci. Era stato messo su un esercito di esuli cubani che, con l’aiuto militare degli Stati Uniti, avrebbero dovuto far scattare l’insurrezione nell’isola. L’operazione effettivamente scattò tre mesi dopo l’insediamento di Kennedy, ma si risolse né più né meno che con lo stesso successo di un vecchio moto mazziniano. Per giunta, un anno dopo, Fidel Castro, il dittatore cubano, mostrò di voler fare sul serio quando diede la sua disponibilità al dispiegamento sul suolo della sua isola di una batteria di missili sovietici, per controbilanciare quelle che gli Stati Uniti avevano già piazzato in Turchia e in Italia. In quel caso Kennedy pensò bene di rinunciare a qualsiasi prova di forza – tanto delicata era la situazione – e preferì sfoderare le sue doti di intavolatore di trattative (buon sangue non mentiva, il padre era stato ambasciatore a Londra). Kennedy ottenne, sì, di non avere missili puntati contro il Potomac, ma nello stesso tempo dovette accettare di smantellare quelli in Turchia e in Italia. Poi, per evitare che altre Cuba spuntassero nell’America Latina, varò l’Alleanza per il progresso, un programma di fidelizzazione economica rivolto proprio agli altri Paesi a rischio castrista. Fuori dall’America, nella vecchia Europa, si fece egli stesso manifesto vivente contro il comunismo, e in quel caso per fidelizzare le masse gli bastò la sua immagine da conquistatore.

Dottrina Nixon (“Uscire dal Vietnam con dignità”). “Il Vietnam non è mai stata la mia guerra, ma la mia eredità”. Lo diceva spesso Richard M. Nixon, 37mo presidente Usa, e non senza ragione. Nel 1968, l’anno in cui si prese la rivincita postuma su Kennedy, egli capì subito che non aveva affatto chiuso i conti col rivale. Il Vietnam era infatti una questione lasciata aperta da Kennedy e approfondita da Johnson. In fondo, un classico fronte di bilanciamento di forze (il Sud retto da un regime filo-occidentale da sostenere contro il Nord comunista), eppure Nixon, uomo di Eisenhower che certo non sembrava tipo da rompere gli schemi, sul Vietnam effettivamente li ruppe. E, sostenuto dal consigliere Kissinger, iniziò quel disimpegno che i suoi predecessori non avevano trovato la volontà di fare. Non era una ritirata: piuttosto gli Stati Uniti facevano un passo indietro, abbandonavano la prima linea continuando a fornire al governo sudvietnamita i mezzi militari ed economici per sopravvivere e continuare il conflitto, da solo. Per Saigon, comunque il destino era già segnato e l’esercito americano fece in tempo a lasciare il suolo vietnamita un attimo prima di diventare partecipe di una disfatta completa. L’anno-chiave fu il 1973: nell’arco di quei dodici mesi Nixon fece toccare al conflitto la sua cima più sanguinosa (con gli ultimi devastanti bombardamenti a tappeto in Cambogia) e poi iniziò le trattative di pace. Certo, è limitante etichettare col termine “vietnamizzazione” la dottrina Nixon, se si pensa che proprio il 1973 fu cruciale anche su un altro versante della massima importanza per la politica estera statunitense: quello latino-americano. Ne settembre di quell’anno, infatti, furono perfezionati gli ultimi dettagli dell’operazione Condor, grandiosa campagna di partnership tra Cia e polizie segrete al servizio degli stati sudamericani retti da dittature militari (molte dei quali erano state instaurate nei decenni precedenti proprio grazie all’aiuto americano) per rafforzare la repressione ai danni di dissidenti di sinistra: questo testimoniava un rinnovato interesse, da parte della Casa Bianca, per un interventismo alla Theodore Roosevelt aggiornato in era anti-comunista. È come se Nixon, guidato da Kissinger, perseguisse una sorta di bilanciamento interno alla sua stessa strategia: il pugno di ferro contro uomini e partiti di sinistra sul suolo continentale andava a compensare una generale distensione nei confronti del comunismo sul piano extra-americano, come dimostrava il caso Vietnam ma ancor di più la riapertura dei rapporti con la Cina.

Dottrina Carter (“Bisogna rendere chiaro che i sovietici debbono stare lontani dal Golfo Persico”). Ventitré anni dopo la dottrina Eisenhower, la Casa Bianca tornava ad occuparsi, con Jimmy Carter, 39mo presidente Usa, di politica mediorientale. Un anno prima l’Unione Sovietica aveva invaso l’Afghanistan, per rovesciare il regime dittatoriale di Amin e favorire la salita al potere di Babrak Karmal. E così si riproponeva per l’ennesima volta la necessità di azionare lo schema del “bilanciamento di forze”: Carter rispose col sostegno occulto alla guerriglia dei fondamentalisti, l’istituzione di una forza militare di intervento rapido nel Golfo Persico e l’aumento della presenza navale americana in quella stessa area. Ma all’Oriente Carter dedicò un impegno particolare anche al di là dell’obiettivo specifico della sua dottrina: diede infatti un importante contributo alla pace nella regione mediorientale con gli accordi di Camp David del 1978 tra Egitto e Israele. Il fato però voleva che, nell’arco di un solo mandato, fosse proprio lo scacchiere mediorientale a offuscare l’astro del già governatore della Georgia. Nel 1979, infatti in Iran la Rivoluzione islamica aveva rovesciato lo scià, alleato degli americani, e instaurato una repubblica teocratica, nemica giurata dell’Occidente e dell’America: una delle prime manifestazioni di quest’odio fu il sequestro, da parte di un gruppo di studenti, di 52 membri dell’ambasciata americana a Teheran. L’Amministrazione si mostrò incapace di escogitare un’azione fulminea per ottenere la liberazione di quegli ostaggi, e Carter si ripresentò agli elettori con quel delicato dossier ancora sul tavolo. L’esito del voto lo avrebbe dispensato dal rioccuparsene.

Dottrina Reagan (“Gli Stati Uniti hanno il dovere morale di contrastare i comunisti in ogni parte del mondo”). Ronald Reagan, 40mo presidente Usa, fu il secondo, dopo Theodore Roosevelt, ad aggiungere un corollario alla dottrina di un suo predecessore, ma anche il primo, in assoluto, a introdurre in questo genere di formulazione programmatica la categoria del casus belli circostanziato. Se infatti in precedenza, a partire da Truman e Eisenhower, si era sempre parlato, genericamente, di un particolare clima o di determinate condizioni per cui gli Stati Uniti, in presenza di atti lesivi nei confronti dei loro alleati, sarebbero potuti intervenire, e il corollario alla dottrina Carter Reagan indica chiaramente quello stato – l’Arabia Saudita – in aiuto del quale, se fosse stato aggredito, gli Stati Uniti si dichiaravano pronti a entrare un un conflitto (quello tra Iran e Iraq). Tuttavia, a differenza di Roosevelt, il corollario Reagan non coincide con la dottrina Reagan. Quest’ultima, infatti, non è mirata a un solo e specifico scenario, ma ha una visione anti-comunista a 360°, diremmo quasi ecumenica. Nulla di diverso, in fondo, rispetto alle grandi dottrine tese a contrastare l’Unione Sovietica ma, da vero uomo fuori dagli schemi, Reagan cambia la finalità: non più contenere il Grande Nemico dell’Est, ma addirittura portarlo al collasso, avendone intuito l’intrinseca debolezza. Su tutti i fronti: quello europeo, innanzitutto, dove ormai il mondo del Patto di Varsavia era in ebollizione; quello latinoamericano, con il sostegno ai contras del Nicaragua contro il governo sandinista di Ortega e l’invasione di Granada, dopo che nel 1983 un colpo di Stato aveva imposto nell’isola il regime marxista-leninista di Hudson Austin; e – in prosecuzione della dottrina Carter – quello mediorientale, con il sostegno ai mujaheddin in Afghanistan. In fondo Reagan aveva solo dato una serie di spintarelle a un processo di disgregazione che era già ben avviato per conto suo. Ma di certo non poteva immaginare che, proprio verso la fine del suo secondo mandato, l’Uinone Sovietica, con una guida completamente nuova come quella di Gorbačëv, gli sarebbe potuta apparire molto migliore: un Paese con cui era bello firmare un trattato per l’eliminazione delle armi nucleari a raggio intermedio in Europa (1986), che segnò la fine della guerra fredda.

Dottrina Clinton (“Gli Stati Uniti hanno il dovere di intervenire laddove è in loro potere fermare genocidi e stermini di massa”). Finito il comunismo, gli Usa non ci misero molto a individuare nuovi nemici. Uno di questi fu Slobodan Milošević, il presidente-dittatore serbo che non era riuscito a evitare la dissoluzione della Federazione jugoslava, ma che alla fine degli anni ’90, dopo quasi un decennio di sanguinose guerre civili, ancora tenta di allargare quello che gli era rimasto (la Repubblica di Serbia-Montenegro) a spese di piccoli stati che da anni ormai avevano affermato e con orgoglio difendevano la propria indipendenza. A Milošević stavano a cuore in modo particolare le comunità serbe sparse nei vari territori, mentre agli altri abitanti che non fossero serbi egli chiedeva ai suoi eserciti di attuare un trattamento di vera e propria pulizia etnica. Questo era già successo nel ’92 in Bosnia-Erzegovina, un Paese di fatto già indipendente dalla Serbia al momento dell’intervento di Belgrado, e questo, nel 1999, stava succedendo in Kosovo, la regione autonoma della Serbia a maggioranza albanese che si considerava indipendente ma non era riconosciuta come tale. L’amministrazione americana guidata da Bll Clinton, 42mo presidente Usa, intervenne in entrambi i casi per porre fine al progetto di sterminio. Naturalmente l’intervento militare americano portò anche di lì a poco tempo alla conclusione del conflitto e all’apertura di un tavolo della pace. Molti osservatori hanno imputato a Clinton un’incoerenza piuttosto perplimente: se, per ragioni umanitarie, egli intervenne in modo così lesto e convinto nella ex Jugoslavia così da fermare i genocidi in corso, perché, essi si chiedono, al contrario egli nicchiò sul massacro dei Tutsi in Ruanda che avveniva nello stesso periodo, lasciandone interamente la gestione sulle spalle dell’ONU, come avveniva nella Somalia sconvolta dalla guerra civile? Una risposta potrebbe essere che il governo clintoniano in fondo aveva ben presenti i punti cardinali della dottrina Nixon, secondo cui era conveniente per gli Usa un disimpegno a oltranza nella regione dell’Estremo Oriente e in Africa. L’Europa, al contrario, anche dopo la fine della Guerra fredda restava un settore cruciale dello scacchiere geopolitico, e a maggior ragione l’area ex jugoslava, che bisogna sostenere nella ricostruzione post-comunista. Ma l’impegno di Clinton fu rimarchevole anche sul fronte della politica orientale. Nel 1993 egli organizzò un vertice alla Casa Bianca, con la partecipazione del premier israeliano Rabin e dello storico capo della resistenza palestinese, Arafat, e riuscì a farli convergere, felicemente, sulla soluzione dei due Stati per due popoli: al mondo sembrò che fosse stata finalmente trovata la soluzione alla questione mediorientale per eccellenza, ma due anni dopo l’assassinio di Rabin per mano di un fanatico pose tragicamente fine al processo. Clinton non demorse e, novello Carter, nel 2000 promosse un ritorno a e con Arafat e il nuovo premier ebraico, Ehud Barak: ma non si addivenne ad alcun risultato significativo.

1989, incontro di Bush con Gorbaciov.
Dottrina Bush (“Estendere libertà, democrazia e sicurezza in tutte le regioni”). Il terrorismo islamico che era rimasto sullo sfondo nell’era Clinton sale prepotentemente – e spettacolarmente – alla ribalta nell’era del suo successore, George W. Bush (figlio di quel George H. che aveva condotto la Prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein, nel 1991). Quello dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York fu il primo attacco straniero portato sul suolo statunitense dal 1815, dai tempi, cioè, della seconda guerra tra inglesi e americani. Il mantra dell’amministrazione Bush fu: vendetta, tremenda vendetta. Quanto alla regia dell’attacco, sin dalle prime ore dopo il suo compimento era possibile agire in base a due piste: quella che portava esclusivamente al terrorismo di matrice musulmana e quella che ipotizzava una congiura orchestrata dai grandi nemici orientali degli Stati Uniti: l’Afghanistan talebano, l’Iraq, l’Iran. Bush e i suoi ministri optarono, alla fine, per fondere le due piste: avrebbero pagato i terroristi – quelli del movimento di al Qaeda, fondato dallo sceicco Osama bin-Laden – e i Paesi dell’area mediorientale per cui fosse emerso il minimo sospetto di una complicità con l’attentato. E se anche non avessero avuto un legame diretto e provabile con i fatti dell’11 settembre sarebbe bastato che avessero avuto semplicemente degli arretrati –non importa se di vecchia data – nei confronti degli Stati Uniti. Seppure non avevano avuto parte nell’attacco, alla luce della loro “reputazione” potevano sempre costituire un pericolo in futuro: si fece strada il concetto della “guerra preventiva”. E non c’erano dubbi che in questa strategia sarebbe potuto rientrare anche l’Iraq di Saddam Hussein. Ma chi pensava che anche l’Iran avrebbe pagato la sua parte di colpa era destinato a rimanere deluso: nonostante Bush non mancasse di inserirlo anche nell’asse del male, insieme allo stesso Iraq e alla Corea del Nord (però troppo lontana geograficamente dall’area incriminata per poter essere considerata davvero coinvolta), alla fine lo stato sciita non ebbe nulla da temere. Toccò prima, nell’autunno-inverno del 2001, all’Afghanistan, che era la culla di al Qaeda e dava ricetto ai suoi militanti; poi, nella primavera del 2003, all’Iraq, che con l’attentato di New York non c’entrava nulla ma aveva la colpa di possedere armi chimiche (in realtà non ne furono mai trovate di più letali e perfezionate di quelle che gli iracheni usavano già negli anni ’80 contro i curdi). Alla campagna contro Saddam Hussein si diede il nome di Seconda guerra del Golfo. Nessun altro subì la vendetta post-11 settembre. Tra le due guerre, nel 2002, Bush ebbe il tempo di enunciare chiaramente la sua dottrina: gli Stati Uniti, da quel momento in poi, si facevano carico di un’altissima missione, esportare in tutti i luoghi della Terra oppressi da regimi tirannici e sanguinari quella libertà e quella democrazia di cui essi si consideravano i fondatori nel mondo moderno. Così, per giustificare un (magari necessario) regolamento di conti Bush si sentiva in dovere di rivelare al mondo che gli Usa assumevano ormai storicamente quel ruolo che, sin dal secondo Dopoguerra, essi ricoprivano già idealmente. Questa vocazione da liberatori diventava ora dovere istituzionale, e così si chiudeva il cerchio aperto dalla dottrina Monroe: non più difensori della libertà in America e poi in Occidente, ma adesso anche in ogni altra parte del globo. Di certo le conseguenze delle due campagne non lasciarono troppo spazio all’epica: accollarsi la ricostruzione da zero, su basi democratiche, di Paesi complessi come l’Afghanistan e l’Iraq fu infinitamente più arduo che sfasciarne i sistemi anti-democratici. Intanto Bush aveva aperto un fronte anti-terrorismo che diventava permanente, ma nel 2006 si mostrava ancora convinto che la strada intrapresa fosse quella giusta: in quello stesso anno, dopo un processo durato tre anni, veniva condannato alla pena capitale e giustiziato Saddam Hussein. La morte di Osama bin Laden sarebbe stata invece un trofeo del suo successore, Barack Obama.

Dottrina Trump (“Fare di nuovo l’America grande”). Se nell’era di Barack Obama, il primo presidente afro-americano della storia Usa (e il 44mo nel catalogo generale), si aveva come la sensazione che gli Usa non avessero più delle minacce definite da confini nazionali ma combattessero piuttosto contro quella multinazionale del terrore dai contorni mai ben troppo individuati (al-Qaeda, Isis), con Trump le nazioni da demonizzare sembrano essere tornate: l’Iran, la Corea del Nord, la Cina. Mentre Obama, l’uomo della “speranza” (anche nel genere umano) era, quindi, anche l’uomo dell’apertura e della ripresa del dialogo, Trump ha, in fondo, una visione molto più elementare: qui si ragiona per amici e nemici dell’America, senza sfumature e zone intermedie. Eppure fino a questo momento l’attuale presidente si è mostrato più un maestro delle polemiche internazionali, delle minacce promesse e non mantenute, che un reale alimentatore di grandi tensioni. Se si eccettuano, infatti, le ormai rituali operazioni di contrasto al terrorismo in tutta l’area mediorientale e del Golfo Persico – rituali dai tempi di Bush, si intende – e poi il raid di inizio gennaio 2020 che, sul suolo iracheno, ha eliminato un importante generale iraniano e messo una pietra tombale sulla distensione con Teheran pazientemente coltivata da Obama, se si eccettua questo, dunque, con la Cina e con la Corea del Nord, sin dall’inizio, è stato tutto un lasciarsi e un riprendersi. A conti fatti, invece, Obama, pur con le migliori intenzioni e i più grandi ideali, nel 2011 si risolse a sostenere i ribelli libici per rovesciare Gheddafi e quelli siriani contro al-Assad; inoltre ebbe anch’egli un ruolo nell’escalation del conflitto nello Yemen ed egli stesso diede avvio ad un’escalation di ritorno, quella dei soldati americani in Iraq in funzione anti-Isis (Obama aveva ritirato nel 2011 quelli stanziati lì sin dalla Seconda guerra del Golfo). Verrebbe quasi da sospettare che, in fondo, per Trump il nemico più grande dell’America sia proprio il suo predecessore, del cui sistema di riforme – e dei cui risultati in politica estera, vedi il caso Iran – egli si è impegnato fin dall’inizio a fare tabula rasa.
Il 4 novembre sapremo se ci sarà un prosieguo – e magari un’evoluzione – della dottrina Trump o se dovremo, piuttosto, parlare del passaggio a una dottrina Biden.