di Giuseppe Gagliano –
Nonostante la retorica ufficiale di una partnership “win-win”, la relazione sino-africana è molto controversa, principalmente a causa della sua pronunciata asimmetria. I dati mostrano che se la Cina è importante per molte economie africane, il reciproco è tutt’altro che vero, e non c’è alcun impatto positivo per le popolazioni, le ONG e gli imprenditori locali, soprattutto nei bandi e nei grandi contratti firmati tra Cina e alcuni paesi africani.
In Gabon, dove il consorzio CMEC (China Machinery Engineering Corporation) / Sinosteel, che beneficia del finanziamento agevolato di EximBank, ha ottenuto dal 2006 i diritti esclusivi per la gestione della miniera di ferro nella regione di Bélinga. Questo progetto rappresentava un investimento di 3,5 miliardi di dollari, ovvero il 30% del PIL del Gabon, e il costo richiesto per la costruzione delle infrastrutture necessarie per l’estrazione del minerale di ferro ammonterebbe a 590 milioni di dollari. L’IDE dovrebbe generare quasi 30mila posti di lavoro in Gabon, l’80% dei quali saranno cittadini del paese, e in cambio la China National Machinery and Equipment Corporation (CMEC), azionista di maggioranza (85%) della joint venture con capitale pubblico gabonese (15%), costruirà una ferrovia di 560 km tra Belinga e Santa Clara, un porto sull’Oceano Atlantico, nonché una diga idroelettrica per la fornitura di energia alle attività minerarie e ad altre attività.
Lo Stato gabonese ha firmato un accordo con Fortescue Metals Group il 24 novembre, ma si è poi scoperto che fino ad oggi questo progetto non ha mai visto la luce.
Si tratta di un esempio tipico: la Cina fa promesse ad alcuni paesi africani per avere grandi mercati, ma le popolazioni locali non ne traggono vantaggio: i tassi di disoccupazione restano sempre alti e le popolazioni indigene spesso continuano a non avere accesso ad acqua ed elettricità.
Va comunque notato che la Cina è oggi il Paese che investe di più nell’Africa subsahariana, in particolare in termini di infrastrutture (strade, stadi, palazzi, ecc.). I governi africani firmano sempre più partenariati con la Cina perché c’è la sensazione di essere trattati alla pari, dal momento che la Cina non ha una storia coloniale in Africa. Inoltre governatori e popolazione ritengono che i cinesi lavorino meglio e più velocemente rispetto ad esempio alle aziende francesi e a quelle di altri paesi tradizionali. Se un progetto avviato dai cinesi fallisce o tarda a concretizzarsi, è spesso dovuto a lotte interne della classe politica locale o al mancato pagamento delle scadenze da parte dei governi. Da vicino è tuttavia possibile vedere una vera e propria invasione coloniale da parte della Cina, qualcosa che ricorda gli effetti che la colonizzazione ha avuto sul continente, basti pensare alle numerose migliaia di lavoratori cinesi (e famiglie) in Africa per lavorare, mentre allo stesso tempo l’Africa soffre per gli alti livelli di disoccupazione.
Al di là del pericolo di una nuova colonizzazione, le aziende cinesi sono accusate di inondare i mercati locali con prodotti contraffatti o di scarsa qualità, e soprattutto competono direttamente con i mercati locali.
Ad esempio, più di 30mila cinesi si sarebbero già stabiliti in Algeria lavorando nel settore della ristorazione e del tessile. In Camerun i venditori di ciambelle (una tradizione locale) affrontano la concorrenza dei venditori cinesi. La presenza cinese nella Repubblica Democratica del Congo si fa sentire principalmente attraverso piccoli commercianti e ristoranti. Queste attività formano una concorrenza spietata per la gente del posto.
Un problema da sottolineare è anche quello della forza lavoro cinese. Molti contratti cinesi sono accompagnati da una clausola che richiede che il 70% (dato che varia da paese a paese) del lavoro sia svolto da lavoratori cinesi, come pure molte aziende cinesi sono costrette far fronte alla mancanza di manodopera locale qualificata e quindi a ricorrere a propri concittadini.
Un ulteriore problema è che i lavoratori cinesi vivono in campi chiusi, il che riduce i contatti e quindi gli scambi con le popolazioni locali. La Cina è stata anche accusata di utilizzare prigionieri o coscritti per i vari lavori, per cui verrebbero ignorate le reali condizioni di lavoro degli operatori locali. Ma se nei media occidentali vengono spesso denunciati bassi salari e condizioni di lavoro sfavorevoli, le aziende cinesi non sono le uniche ad avere questo monopolio deplorevole. Vengono infatti individuate anche alcune aziende occidentali che operano allo stesso modo, e non è raro che ci siano tensioni tra datori di lavoro e lavoratori, ad esempio in Senegal e Zambia.
Le aziende locali non sono di conseguenza esenti dallo stesso modus operandi di quelle cinesi, anche perché rispondono alle gare d’appalto con i prestiti cinesi e puntano a risparmiare per non andare in perdita.
Ciò non favorisce la crescita delle PMI locali nei settori delle infrastrutture, delle costruzioni e del tessile, che rappresentano oltre il 50% del tessuto economico dell’Africa subsahariana.
In Africa occidentale ad esempio le imprese cinesi raramente competono con le imprese locali, ma contribuiscono alla creazione di nuovi posti di lavoro poco qualificati. Aumentano la concorrenza nel campo degli appalti, che porta a una riduzione dei margini di profitto delle aziende attive nel settore. Per giunta le aziende cinesi hanno pochi fornitori africani, in valore solo il 47% delle forniture delle aziende cinesi provengono da società africane.
Diverso è il contesto imprenditoriale in Sud Africa, dove il mercato del lavoro e le aziende sono sottoposti a maggiore regolamentazione rispetto al resto dell’Africa e della stessa Cina), cosa che limita il margine d’azione delle imprese cinesi abituate a una maggiore liberalità.
Anche la creazione di zone economiche favorisce le imprese cinesi ai bandi di gara, perché queste ultime beneficiano di esenzioni fiscali e vantaggi che le PMI locali non hanno.
La natura della presenza cinese in Africa, e in particolare il mancato rispetto di un livello minimo di standard, in particolare sociali e ambientali, dipende molto anche dalla natura dei diversi regimi africani con cui la Cina lavora. In generale il progresso della democrazia e l’esistenza di una vera società civile vanno a scapito del margine di manovra di Pechino o delle società cinesi.
I cinesi hanno capito meglio di chiunque altro che la debolezza dell’Africa risiede nelle sue infrastrutture e che questo ostacola lo sviluppo economico e sociale del continente. Anche la Cina finanzia grandi progetti stradali, ferroviari, idraulici e di costruzione (stadi, palazzi…).
In definitiva la Cina non è necessariamente “l’amica degli africani”, ma sarebbe piuttosto “un matrimonio di convenienza”. I leader dei paesi ai margini della comunità internazionale apprezzano fortemente la presenza cinese (Sudan, Zimbabwe), così come quella dei paesi in transizione e ricostruzione (Angola, RDC, Sierra Leone, Tanzania). Resta il fatto che gli investimenti cinesi hanno indiscutibilmente consentito ai paesi africani di rafforzare le proprie capacità industriali e creare posti di lavoro, ma le partnership con la Cina presentano innegabili vantaggi e svantaggi che per loro natura i paesi africani non riescono a contrastare.
La Cina ha comunque puntato sul futuro emergere di una classe media africana con un notevole potere d’acquisto, che potrebbe raggiungere presto alcune centinaia di milioni di persone.