La “confederazione europea” di Letta e l’Unione che verrà

di Roberta Lucchini

Nel quotidiano “Corriere della Sera” è stato pubblicato un intervento di Enrico Letta, segretario del Pd, dal titolo “Una Confederazione europea. Il percorso dell’adesione di Kiev”. Nel testo l’ex presidente del Consiglio riflette sui modi e sui tempi dell’eventuale ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea, prendendo come parametro di giudizio le vicende degli ultimi allargamenti, che hanno di fatto quasi raddoppiato, in pochi anni, il numero degli Stati membri. Tale posizione è stata successivamente ribadita da Letta su “Domani” e rilanciata sul “la Repubblica” anche da Piero Fassino, presidente della Commissione Esteri della Camera, che ne ha ulteriormente precisato i termini. Nessun altro leader politico sembra, al momento, aver manifestato un qualche moto di interesse.
Va subito rimarcato che l’iniziativa di Letta è senz’altro degna di plauso, per almeno due ordini di motivi. Il primo, di carattere più generale, riguarda il senso stesso delle considerazioni avanzate: una riflessione di ampio respiro che guardi al passato per disegnare il futuro, con l’intento – condivisibile – di stimolare una discussione piuttosto che abbandonarsi alle emozioni, è un’operazione senz’altro meritoria. Ha l’ambizione di delineare una visione, di perseguire un progetto che importi una “Idea” di Unione europea abbastanza forte da essere coltivata. Il secondo motivo di apprezzamento riguarda la dichiarata esigenza di non “sminuire la complessità” del processo di apertura nei confronti dell’Ucraina e degli altri Paesi dell’Est che aspirano ad entrare quali parti integranti, e integrate, nell’Unione Europea.
“Molti i ritardi da colmare per adeguarsi agli standard richiesti, imponente l’impatto potenziale di un nuovo allargamento sull’assetto stesso dell’UE”, afferma Letta, richiamando l’attenzione sui rischi di una semplificazione eccessiva di quello che, invece, è un iter lungo, scadenzato in passaggi rigorosi e capitoli tematici non eludibili.
Tuttavia, la soluzione offerta, che in parte contraddice l’appello alla ponderazione, risulta poco convincente sotto il profilo dei tempi indicati, dell’assetto istituzionale, della realtà geopolitica. E rischia di dare, alla lunga, risultati non in linea con le premesse, per quanto apprezzabili esse appaiano.
Letta propone, infatti, di creare “subito” (e in questo consiste la contraddizione con quanto sopra detto) “una Confederazione Europea composta dai 27 Stati membri, dall’Ucraina, dalla Georgia, dalla Moldavia, dalla Macedonia del Nord, dalla Serbia, dal Montenegro, dall’Albania, dalla Bosnia e dal Kosovo”, consentendo a questi Paesi di essere coinvolti nella “vita pubblica europea e di avere soggettività in uno spazio politico e strategico comune”, mentre proseguirebbe il “percorso ordinato” di adesione all’Unione.
Il fulcro istituzionale di questo nuovo assetto sarebbe rappresentato dal Consiglio Europeo, alla cui riunioni (a 27) seguirebbero, simbolicamente nel medesimo luogo, gli incontri a 36 membri. Quanto alle competenze, la Confederazione sarebbe un forum politico, dove concordare “strategie globali, a partire dalla difesa della pace, dalla sicurezza, dalla promozione di un modello di sviluppo giusto e sostenibile e dalla lotta al cambiamento climatico”.
Tutto molto interessante, in una prospettiva accattivante e oserei dire ottimistica, che deve tuttavia scontrarsi con la realtà della situazione generale e delle condizioni particolari. Innanzitutto, il concetto di Confederazione. Con tale espressione, infatti, si intende “una forma di aggregazione di Stati indipendenti e sovrani per far fronte a comuni esigenze di carattere militare ed economico, la quale non dà vita ad uno Stato nuovo in quanto si fonda su un trattato internazionale concluso tra Stati e non su una nuova Costituzione” (così R. Bin – G. Pitruzzella, Diritto Costituzionale, Torino, Giappichelli, 2019, p. 100).
Nel caso specifico, quindi, sebbene il termine “confederazione” possa risultare attraente e rievocativo di quelle esperienze storiche che hanno visto, quale naturale evoluzione dello schema, la nascita di federazioni (come nel caso degli Stati Uniti d’America), la denominazione non corrisponde alla fattispecie. Qui si tratterebbe, semmai, di una ennesima organizzazione internazionale, a carattere regionale, fra Stati indipendenti in condizione di parità, sul modello delle tante esistenti, che dovrebbe rappresentare l’anticamera di una integrazione più profonda e sarebbe destinata a perdere importanza quando il processo di adesione all’Unione Europea fosse portato a compimento da tutti gli aspiranti. I limiti politici della proposta risultano di immediata evidenza: il Kosovo, infatti, non gode del riconoscimento internazionale da parte di ben cinque membri dell’Unione Europea (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna), oltreché di Serbia e Bosnia-Herzegovina, che certo non lo considerano al proprio livello; inoltre, permane un atteggiamento non disteso della Bulgaria nei confronti della Repubblica della Macedonia del Nord, nonostante i recentissimi cenni di apertura, e nei confronti dell’Albania, che per di più non riscuote le simpatie francesi.
Il fatto, poi, che dal novero dei Paesi coinvolti sia esclusa la Turchia mette in risalto (valutazione peraltro condivisibile allo stato) l’impossibilità di un avanzamento delle relazioni con l’UE, nonostante l’esistenza di un accordo di associazione concluso nel 1963 dall’allora Comunità Europea e degli altri strumenti sottoscritti in seguito: è assolutamente necessario alimentare il dialogo, mantenere aperti canali di comunicazione anche di elevato livello, mentre l’esclusione della Turchia dal club dei confederati potrebbe rendere arduo l’obiettivo e spingere l’interlocutore a guardare altrove, a futuribili alleanze per noi sfavorevoli.
Potrebbe essere interessante, piuttosto, una iniziativa per così dire continentale, che considerasse, oltre la Turchia – e, perché no, anche il Regno Unito se lo volesse – gli altri Paesi europei che già hanno relazioni economiche privilegiate con la UE (Svizzera, Islanda, Norvegia, Liechtenstein), i quali, pur non volendo entrare a farne parte in maniera integrale, non si possono estromettere da un approccio quanto più inclusivo possibile e che non sia di natura eminentemente economica.
Peraltro l’esigenza di creare “da subito legami economici e culturali, ponendo le basi per ulteriori convergenze” non tiene in alcun conto la realtà dei fatti. Ognuno dei Paesi indicati, infatti, è già inserito in una serie di accordi con l’Unione Europea ed i suoi Stati membri, sia con l’obiettivo dell’adesione (come per i Paesi balcanici) sia nell’ambito delle politiche di vicinato (come è il caso degli accordi di associazione con la Georgia, la Repubblica di Moldova e l’Ucraina, firmati nel 2014 ed entrati in vigore successivamente).
Ad ogni modo, la nascita precipitosa di una nuova sovrastruttura, teoricamente estesa fino all’estremo confine orientale dell’Europa geografica – il che, per inciso, comporterebbe anche ulteriori costi in termini di organizzazione e gestione a carico dei non floridi bilanci statali – cozza con il perdurare dell’atroce conflitto in Ucraina, la cui cessazione non sembra prossima ed i cui esiti sono ancora incerti. Proprio per questo, come giustamente sottolinea Letta, non è opportuno, oltre che contrario alle regole, consentire ai Paesi del vicinato dell’Est di saltare la tappe nel processo di adesione alla UE. Anzi, viene da aggiungere, andrebbe soppesata ancor più attentamente l’ipotesi di favorirne l’ingresso. Proprio come l’Ucraina, anche la Georgia e la Repubblica di Moldova presentano sul proprio territorio situazioni potenzialmente esplosive, o addirittura già deflagrate: in Georgia, i territori secessionisti di Abkhazia e Ossezia del sud, che pure hanno posizioni diverse sulla propria destinazione finale (l’Abkhazia vorrebbe l’indipendenza, l’Ossezia l’annessione alla Russia), in Moldova l’enclave filorussa della Transnistria.
Anche se Putin non si è espresso con chiarezza, basta guardare la carta geografica per ipotizzare ragionevolmente che i russi abbiano l’obiettivo di fagocitare Odessa e di ricongiungere alla madrepatria la regione separatista moldava.
Un motivo molto semplice ma trascurato dalla maggior parte dei commentatori sconsiglia di prefigurare l’ingresso nell’Unione Europea di Paesi non totalmente pacificati al loro interno: la norma del Trattato sull’Unione Europea che riproduce l’art. 5 del Trattato NATO e stabilisce che “qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite” (art. 42, n. 7, TUE).
Al dunque, non si tratterebbe solo di armamenti e tank, ma anche di basi, del movimento di eserciti e di azioni sul terreno. Finché ai nostri confini albergheranno regimi antidemocratici, animati da pulsioni aggressive e revansciste, sarà il caso di soppesare attentamente le scelte strategiche da compiersi. Si potrebbe arguire, come del resto già si è fatto con riferimento agli Stati baltici o ad altri Paesi ex-sovietici, che, prima di scatenare una reazione difensiva dell’intera Unione Europea, probabilmente insieme alla NATO, l’artefice di un eventuale piano di attacco ne valuterebbe attentamente le conseguenze. Ma la storia ci insegna che uomini soli al comando possono avere orizzonti limitati e prospettive falsate dall’autoreferenzialità: quindi sono imprevedibili.
Un ulteriore aspetto merita di essere considerato: immaginare un’Unione Europea a 36 membri (perché in prospettiva è ciò che Letta propone), riformata per di più attraverso l’eliminazione dell’unanimità e l’introduzione della regola della maggioranza qualificata come unico sistema di assunzione delle decisioni, significherebbe che i Paesi fondatori e qualche altro Stato membro dell’area mediterranea rischierebbero di trovarsi in minoranza rispetto alla sommatoria degli Stati balcanici, del gruppo di Visegrád, dei nuovi entrati e di qualunque altro Stato membro possa essere attratto da uno di questi insiemi.
Sostanzialmente, saremmo di fronte ad un irreversibile spostamento ad Est del baricentro dell’Unione. Ed anche il ricorso alle cooperazioni rafforzate per superare eventuali impasse comporterebbe un aggravio di lavoro e di procedure, contrario all’esigenza di maggiore speditezza e razionalizzazione. È questo ciò che vogliamo? Le possibili conseguenze non si possono ignorare. E, quindi, ogni passo va attentamente ponderato.

* Coordinatrice Dipartimento Studi e Formazione – Istituto Diplomatico Internazionale.

Articolo in mediapartnership con il Giornale Diplomatico.