La corsa (inarrestabile) del Dragone. E sul Tibet… Intervista a Marco Costa

di Giuliano Bifolchi ** – 

cina marco carta grandeI recenti eventi che stanno coinvolgendo Hong Kong con le manifestazioni degli studenti capaci di attirare l’attenzione dei media internazionali ed i continui rapporti che intercorrono tra Pechino e Roma e tra Pechino e Bruxelles impongono un’analisi approfondita sul ruolo geopolitico ed economico che attualmente investe la Repubblica Popolare Cinese, potenza mondiale che spesso divide il parere dell’opinione pubblica tra coloro i quali ne supportano il modello di crescita e la forma di Governo istituita ed invece i detrattori che ne sottolineano gli aspetti negativi come ad esempio il problema dei diritti umani oppure la gestione delle minoranze etniche.
Con l’obiettivo di studiare il sistema Cina e le relazioni che lo legano all’Italia e all’Unione Europea abbiamo intervistato Marco Costa*, responsabile dell’area euroasiatica del Centro Studi Eurasia Mediterraneo (CeSEM) e coautore de La Grande Muraglia. Pensiero politico, territorio e strategia della Cina Popolare e de La Via della Seta. Vecchie e Nuove Strategie Globali tra la Cina e il Bacino del Mediterraneo.

– La Cina oramai è una potenza affermata a livello regionale e mondiale con cui sia le grandi potenze che i paesi emergenti devono rapportarsi. Parlando del nostro paese, quali sono ed in che modo si stanno sviluppando le relazioni italo-cinesi?
“Nell’aprile di quest’anno, il Financial Times ha pubblicato uno studio della Banca Mondiale secondo il quale la Repubblica Popolare Cinese era salita al primo posto nella classifica delle economie mondiali. Questo risultato viene dato come combinato disposto di diversi fattori: la crescita costante cinese, la crisi finanziaria delle economie occidentali, il diverso sistema di calcolo degli indici, ovvero non più la produzione del PIL nazionale come valore assoluto ma rapportato alla capacità d’acquisto della singola moneta, detto fattore “purchasing power parity”. Dato questo elemento, ammessa la straordinaria forza economica della Cina, è naturale che derivino conseguenze su più piani. Da un punto di vista geopolitico, significa che in qualche decennio gli equilibri globali ed i rapporti di forza sono stati completamente riscritti. Dal punto di vista economico e diplomatico, anche l’Italia – e per fortuna anche le sue imprese – sono state investite dai benefici di questa straordinaria crescita. Basti pensare all’export delle eccellenze della manifattura italiana verso oriente: nel 2013 il primo settore del manifatturiero diretto in Cina è quello dei macchinari e apparecchiature, con una quota del 38,2%, in lieve aumento del 2,8% rispetto al 2012; in seconda posizione autoveicoli, rimorchi e semirimorchi, che pesano per il 7,1% e in forte crescita, con un +67,3% rispetto all’anno precedente. Gli articoli in pelle (escluso abbigliamento), con una quota del 7,1%, crescono del 18,4%, mentre i prodotti chimici, che valgono il 6,4% del totale, sono in aumento del 7,6%. Anche l’abbigliamento (che comprende pelli e pelliccia), che incide per il 4,9% sull’export verso la Cina, segna una crescita del 19,1%. Questi solo alcuni dati, che stanno a significare che l’economia italiana che ha retto all’urto della crisi è stata quella che ha avuto spazi per il commercio verso l’Asia. Per il resto, è ovvio che una volta che si sono intessuti i legami economici, le rispettive diplomazie non possono che muoversi di conseguenza. Il nostro centro studi, il CeSEM, già da anni promuove iniziative istituzionali e accademiche sulle relazioni bilaterali (esistenti e possibili), tra Italia e Cina”.

– In un’ottica continentale, in che modo si stanno sviluppando i rapporti tra l’Unione Europea e la Repubblica Popolare Cinese? Crede che Pechino possa giocare un ruolo maggiormente importante per Bruxelles durante il periodo di crisi con Mosca dovuto alla crisi ucraina?
“Che le economie europee ed asiatiche si stiano vicendevolmente integrando è fatto ormai noto. Quello che invece è passato abbastanza inosservato, almeno presso le principali agenzie di stampa italiane, è stato un evento collaterale alla visita del presidente cinese Xi Jinping in Germania nel marzo 2014. Affiancato dalla cancelliera Angela Merkel, Xi ha avuto modo di visitare in prima persona il terminale tedesco dell’avveniristica linea ferroviaria Chongqing-Duisburg, lunga oltre 11.000 km e soprannominata Nuova Via della Seta. La linea Yuxinou non solo risulta essere straordinariamente interessante dal punto di vista infrastrutturale, essendo la tratta ferroviaria più lunga al mondo, ma è anche un’opera destinata, con ogni probabilità, a rivoluzionare i rapporti commerciali e finanziari tra la Cina e l’Eurozona. Di recente a Milano si è tenuto il vertice Asem, in cui erano presenti i leader di Cina, Russia, Unione Europea. Il mese scorso il premier Renzi ha accolto il suo omologo cinese Li Keqiang, dando vita ad un proficuo incontro bilaterale in cui si sono sottoscritti una ventina di accordi commerciali del valore di 8 miliardi di euro, che coinvolgeranno aziende quali Enel, Finmeccanica e altre industrie strategiche. Insomma i legami si infittiscono, sia a livello diplomatico che infrastrutturale ed economico. Per quanto riguarda la vicenda russo-ucraina, almeno a parere mio, la Cina gioca un ruolo secondario se non nullo. I cinesi hanno la buona abitudine, contrariamente all’Unione Europea e alla Nato, di non intromettersi nelle vicende che non li riguardano”.

Parlando di Cina in questi giorni viene da pensare agli eventi che hanno caratterizzato e stanno caratterizzando Hong Kong. I media nazionali ed internazionali hanno dedicato ampio spazio alle proteste degli studenti e all’azione delle forze di polizia etichettata da molti come feroce e non rispettosa dei diritti umani. Innanzitutto potrebbe illustrarci le cause che hanno portato a tali proteste? Crede che tale fenomeno possa continuare ancora a lungo oppure il governo di Pechino riuscirà ad arginare e risolvere la problematica?
“Su questa vicenda va fatta chiarezza, in quanto se ne sono sentite di tutti i colori. La richiesta ufficiale dei manifestanti, è quella di veder garantite maggiori rappresentatività politica e trasparenza nei meccanismi elettorali in vista del voto del 2017. Eppure, da quando Hong Kong è tornata sotto la sovranità cinese nel 1997 dopo la fine del dominio coloniale britannico, i livelli di rappresentatività istituzionale sono notevolmente aumentati rispetto al passato. La Commissione Elettorale che nomina il capo del Governo della Regione Amministrativa Speciale è formata da 1.200 membri, mentre il Consiglio Legislativo viene eletto già a suffragio universale per quanto riguarda la metà dei suoi membri (35 su 70), ai quali vanno aggiunti altri 5 membri, eletti, sempre a suffragio universale, tra chi già riveste una carica di consigliere distrettuale. In totale, dunque, 40 membri su 70 (più della metà) del principale organo legislativo regionale vengono scelti direttamente dalla popolazione. Gli altri, sebbene non scelti sulla base del suffragio universale diretto, sono comunque espressione di rappresentanze del mondo delle professioni. Quindi a Hong Kong esiste un sistema democratico e pluripartitico; alle ultime elezioni, nel 2012, si presentarono una ventina di partiti, di cui molti non certamente accondiscendenti alle politiche del governo di Pechino. Per quanto riguarda l’elezione del Hong Kong Chief Executive – ovvero il governatore locale – già nel 2012 si presentarono 3 candidati, secondo un sistema di elezione indiretta simile alle elezioni di “secondo grado” che avvengono negli enti locali anche in Italia. Non vedo cosa ci sia di strano, è un sistema elettorale come gli altri, con i suoi pregi e i suoi difetti. Le proteste di piazza di alcuni studenti, peraltro rimaste largamente minoritarie tanto da suscitare, dopo alcuni giorni, la mobilitazione delle diverse categorie professionali per un rapido ritorno alla tranquillità, sono state largamente enfatizzate in occidente per ovvie ragioni. Quello che è certo, è che Hong Kong ed i suoi 7,5 milioni di abitanti vantano standard di vita tra i più alti di tutta l’Asia; dopo gli anni d’oro della crescita economica in doppia cifra, il PIL, sebbene abbia rallentato i ritmi di alcuni anni fa, procede su tassi di crescita compresi tra il 2% e il 3% annuo. Il reddito pro-capite, in continua crescita, ha raggiunto 37.900 dollari nel 2013. La situazione peraltro pare che stia volgendo verso la normalità”.

– Le manifestazioni di Hong Kong hanno evidenziato a livello mediatico le tematiche dei diritti umani e della democrazia in Cina; come giudica l’operato del Governo cinese in materia di libertà, diritti e possibilità di espressione?
“Guardi, quando sento parlare di “diritti umani” nell’accezione astratta del termine sono particolarmente sospettoso. Faccio un esempio; in Italia abbiamo il diritto al lavoro sancito dalla Costituzione, eppure abbiamo la disoccupazione (ufficiale) al 13%. In Cina la disoccupazione è al 3,7%. Il diritto al lavoro è maggiormente garantito in Italia o in Cina? Altro esempio, diritto allo studio; in Italia il diritto allo studio è diventato il diritto di chi si può permettere di mandare i figli a scuola, per non parlare delle università. In Cina lo Stato promuove l’istruzione primaria e superiore gratuitamente, e le borse di studio sono distribuite per gli studenti universitari secondo un sistema meritocratico. Basta vedere i risultati, sia quantitativi (percentuale di laureati), che qualitativi (livelli rispettivi di formazione). Dove è maggiormente garantito il diritto allo studio? Si potrebbe andare oltre, a proposito di temi quali diritto alla sicurezza, diritto alla salute, diritto alla casa, eccetera. Al di là della provocazione, bisogna liberarsi dall’assillo velatamente totalitario che ha l’occidente, quello di soppesare i diritti secondo una visione unilaterale, immaginando che una società sia libera nella misura in cui la concezione di libertà ricalchi quella di chi giudica. La Cina contemporanea è una società particolarmente vitale, i giovani sono particolarmente istruiti ed informati, viaggiano molto e sono sempre più interessati al mondo che li circonda. Se poi si misura il grado di libertà nella possibilità di cliccare un “mi piace” su Facebook (e non su un altro social network locale), credo proprio che la civiltà occidentale con la sua millenaria storia giuridica e la sua straordinaria cultura illuministica di libertà civili siano giunte al capolinea”.

– Libertà ed autonomia sono due parole che riportano il pensiero al Tibet oppure allo Xinjiang, regioni le quali in modalità differenti richiedono la propria indipendenza dalla Cina. Quale è l’attuale politica interna cinese in merito alla gestione delle regioni autonome e delle minoranze?
“Capisco il senso della domanda, ma occorre precisare che né il Tibet né lo Xinjiang richiedano alcuna indipendenza da Pechino. Sono parte integranti della Cina almeno dal XIII secolo, quando in Europa non era ancora sorta l’idea dello stato-nazione come lo conosciamo oggi. Sono due vicende molto differenti, quello che è certo è che Pechino conferisce larga autonomia a queste regioni (secondo la sua Costituzione), e il riconoscimento di tale status regionale autonomo è dato da una serie di fattori tra cui la concentrazione di minoranze etniche nelle rispettive aree. In questa prospettiva, le autorità hanno riservato particolare attenzione nell’ambito delle applicazioni pratiche della politica relativa alle etnie minoritarie: a queste vengono garantite concessioni speciali e spesso non vengono loro applicati i provvedimenti imposti alla maggioranza. Così, fino a non molto tempo fa, le minoranze non erano soggette alla legge per il controllo delle nascite; le leggi sul divorzio, in particolare nel caso dei musulmani, e quelle suntuarie che regolamentano i funerali non interessano la maggior parte delle minoranze. Queste si avvalgono, inoltre, di alcuni diritti e privilegi che non sono garantiti agli Han: spesso godono di trattamenti preferenziali, quali quelli relativi all’ammissione a scuole professionali ed all’istruzione universitari secondo quote minime garantite per legge. Simili provvedimenti in alcuni casi appaiono giustificabili, se non ammirevoli, in quanto le genti non-Han spesso non parlano il cinese mandarino e, vivendo in aree poco sviluppate, possono godere di un’educazione primaria e secondaria che a volte risulta essere ben inferiore rispetto a quella impartita nelle aree Han, più sviluppate e modernizzate. Ufficialmente, le minoranze sono incoraggiate a conservare le loro lingue e culture: sono state rilasciate diverse dichiarazioni che ribadiscono questo diritto e la Costituzione del 1954 contiene vari articoli in merito. Nelle aree da esse abitate, il governo riconosce le lingue locali quali mezzi ufficiali di comunicazione che lo Stato non solo adotta per rapportarsi con la popolazione, ma che vengono apprese anche dagli appartenenti al gruppo maggioritario impiegati in quelle zone. Nel nostro ultimo volume pubblicato, intitolato Tibet tra passato e futuro, riportiamo anche diversi dati riguardanti gli enormi investimenti finanziari ed infrastrutturali che il governo di Pechino ha dedicato negli ultimi decenni alla promozione economica delle sue regioni autonome”.

– Parlando nello specifico del Tibet, attualmente in che modo sono caratterizzati i rapporti con la Cina e sulla base di quali trattati? E’ possibile contrapporre le accuse rivolte alla Cina di mancato rispetto delle minoranze e della libertà con il grande operato a livello economico-commerciale e di sviluppo avviato all’interno del Tibet? Crede che la “questione tibetana” e l’accusa del mancato rispetto dei diritti umani nei confronti della Cina siano stati spesso “pilotati” e “politicizzati” con l’intento di attaccare il Governo di un paese sempre in maggiore ascesa?
“Esattamente. Una “questione tibetana” propriamente detta esiste più che altro in Occidente, ed è promossa da diversi centri di potere che sono interessati ad attuare azioni di disturbo nei confronti della “pacifica ascesa” condotta dal governo cinese. Se la Cina, come abbiamo accennato prima, risulta essere un ineludibile partner economico-finanziario per le economie di Europa e Stati Uniti, rimane pur sempre un antagonista dal punto di vista della Nato e di coloro che rimangono ancorati ad una visione egemonica ed unilaterale dei rapporti geopolitici. Sul Tibet, davvero, sui media occidentali siamo stati bombardati per decenni da falsità imbarazzanti, strumentalizzazioni ipocrite e perfino di goffe ricostruzioni storiche. E nell’opinione pubblica, purtroppo, questo accanimento ha avuto una certa presa, in un surreale clima hollywoodiano in cui il racconto immaginifico della realtà ha finito per soppiantare la realtà stessa. Basta esaminare punto per punto gli argomenti solitamente prodotti a supporto di questa paradossale tesi della presunta indipendenza tibetana. Il Tibet era stato parte dell’Impero Cinese per circa 700 anni, dal (1270-1370) Yuan che comprende Cina, Mongolia, Tibet, dal 1368 al 1644 il Tibet era uno Stato vassallo della dinastia cinese Ming, alla fine dinastia cinese manciù, Qing (1644-1911). Il governo nazionalista del Kuomintang continuò a considerarlo come tale, e nel 1951 Mao Zedong e le sue truppe completarono il percorso rivoluzionario rientrando pacificamente nella regione. Tanto è vero nello stesso anno lo stesso Dalai Lama e le autorità locali tibetana firmarono il cosiddetto “accordo dei 17 punti”, in cui riconoscevano la sovranità cinese sul Tibet. Il Dalai Lama scapò volontariamente dal Tibet solamente nel 1959, per un motivo ben preciso: in quell’anno sarebbero entrate in vigore le prime riforme economiche del nuovo corso, che si concretizzarono in una vasta riforma agraria mirante alla ridistribuzione della terra ai contadini, intaccando così il quasi millenario sistema di servaggio attuato dai ricchi lama locali che – ben distanti dall’ascetismo che qualcuno immagina – avevano sempre retto il loro potere temporale sulla servitù della gleba. Qui si apre infatti un’altra questione; spesso il lamaismo è rappresentato dalla propaganda occidentale come un incantato mondo mistico fatto di pace, contemplazione e saggio raccoglimento ascetico. Nulla di più falso; quando il Tibet era retto dalla teocrazia lamaista, gli individui laici, ovvero i contadini, non erano padroni nemmeno dei loro figli, essendo ogni persona proprietà del singolo lama. Esistevano punizioni corporali tanto severe quanto surreali, le altre minoranze religiose venivano perseguitate – tra cui quella cristiana, basta leggere le interessanti memorie dei Frati Cappuccini presenti nel XVIII secolo e il trattamento loro riservato – non esisteva legge né proprietà che non fosse a discrezione dei lama; una teocrazia appunto, in cui ordine religioso, ordine giuridico e sistema economico erano la medesima cosa. La plebe lavorava faticosamente le impervie terre, ed i lama erigevano le loro imponenti statue del Buddha in oro massiccio. Anche qui, a onor del vero, va fatta un’ulteriore fondamentale precisazione. Tra le falsità che solitamente si ascoltano, vi è quella di aver surrettiziamente spacciato il lamaismo come il buddhismo tibetano o, ancor peggio, come il buddhismo in senso lato. Questa appropriazione indebita non può essere capita se non si conosce almeno sommariamente complessità del buddhismo, e delle sue tre principali emanazioni. Per riassumere schematicamente, l’attuale Dalai Lama rappresenta semplicemente il vertice di una scuola, i gelugpa, i quali hanno assunto la predominanza all’interno del lamaismo. A sua volta il lamaismo (al pari della tradizione zen), è una delle due correnti che compongono una delle tre vie principali del buddhismo contemporaneo, la corrente varjayana. Risulta pertanto incontrovertibile il fatto che il lamaismo costituisca solamente una confessione – peraltro assai minoritaria – all’interno dell’ampio e variegato universo filosofico-spirituale del buddhismo. Il lamaismo è quindi una minoranza della minoranza del buddhismo, e ne rappresenta più o meno il 2% dei seguaci. È noto chi ha sostenuto questa campagna di costante falsificazione mediatica. Provocatoriamente, mi verrebbe da dire che quando il Dalai Lama o qualche suo poco informato accolito occidentale parla di promozione “diritti umani” e di “libertà”, è credibile più o meno come se un nazista parlasse di promozione del multiculturalismo e delle tutela delle minoranze etniche. Peraltro questa affermazione è provocatoria fino ad un certo punto, visto che alcuni nazisti hanno ammirato il sistema lamaista quale esempio di autoritarismo teocratico, basta leggere il celebre volume “Sette anni in Tibet” dell’esploratore nazista Heinrich Harrer”.

– Rivolgendo invece lo sguardo allo Xinjiang e alla causa degli Uiguri è doveroso inquadrare le azioni di Pechino nell’ottica delle sicurezza interna; qual è la politica cinese in tale regione volta a favorirne lo sviluppo interno ed a limitare le minacce alla stabilità nazionale?
“È una minaccia concreta, non tanto perché la minoranza uigura non sia ben integrata con le altre etnie della Cina, quanto perché in questa regione sono penetrate organizzazioni terroristiche di stampo islamista dalle aree confinanti di Afghanistan e Pakistan che fomentano un odio etnico anticinese, con intenti separatisti. Esistono diverse organizzazioni di stampo jihadista, probabilmente la più insidiosa è il Movimento Islamico del Turkestan orientale – affiliato ad al-Qaeda – ed è documentato che alcuni suoi aderenti abbiano contatti con il jihadismo mediorientale impegnato in Siria ed in Iraq. La minaccia concreta che tali istanze separatiste attecchiscano nella popolazione – sia uigura che cinese in generale – è praticamente pari a zero, ed il tentativo di creare un fantomatico califfato del Turkestan è semplicemente un vaneggiamento delirante dei terroristi. Tuttavia il problema della sicurezza rimane, in quanto nell’ultimo biennio gli attentati nella regione hanno visto una inquietante intensificazione. Basta ricordare il recente attentato alla stazione ferroviaria di Kunming, compiuto dai separatisti islamisti, avvenuto nel marzo di quest’anno. Nell’attentato furono utilizzate armi bianche e nel corso della strage, morirono circa 30 persone, tra cui 4 membri del gruppo che assaltarono la stazione, mentre più di 100 rimasero ferite”.

costa fuori*Marco Costa [Varazze (SV), 1979] è dottore in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova. È autore di Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia sovietica e post-sovietica (Parma, 2011), Conducator. L’Edificazione del Socialismo in Romania (Parma, 2012), Una fortezza ideologica. Enver Hoxha e il Comunismo Albanese (Cavriago, 2013) e Etica, Religione e Origine del Socialismo (Cavriago, 2014). È coautore de La Grande Muraglia. Pensiero politico, territorio e strategia della Cina Popolare (Cariago, 2012) e La Via della Seta. Vecchie e Nuove Strategie Globali tra la Cina e il Bacino del Mediterraneo (Cavriago, 2014). Attualmente è redattore della rivista di affari globali “Scenari Internazionali” e responsabile area eurasiatica per il CeSE-M. Di prossima uscita il volume Il Tibet tra passato e futuro. Storia, sviluppo e potenzialità della regione autonoma cinese.

bifolchi fuori**Giuliano Bifolchi è analista geopolitico specializzato nel settore Sicurezza, Conflitti ed Energia. Laureato in Scienze Storiche presso l’Università Tor Vergata di Roma, ha conseguito un Master in Peace Building Management presso l’Università Pontificia San Bonaventura. Email di contatto: g.bifolchi@notiziegeopolitiche.net – Follow him on Twitter: @BiGiuls37