La crisi umanitaria dei Rohingya: un popolo senza stato

di Antimo Altomare * –

L’attenzione internazionale su Myanmar e sulla crisi umanitaria nello stato di Rakhine è significativamente aumentata dopo una rapida e allarmante escalation di violenza iniziata nell’agosto del 2017. Durante l’ultima seduta della 74ma sessione dello scorso dicembre, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con 134 voti favorevoli su 193 Paesi rappresentati, ha approvato una risoluzione di condanna per le violazioni e abuso dei diritti umani commessi dal Myammar contro la minoranza musulmana dei Rohingya. Tra i reati contestati al Paese asiatico vi sono arresti arbitrari, tortura, distruzione di villaggi abitati, detenzione arbitraria e violenze sessuali. Nella risoluzione delle Nazioni Unite è altresì espressa preoccupazione per le altre minoranze etniche presenti in altri stati della Birmania, nonché per le violazioni del diritto internazionale umanitario, e si invita il governo del Myammar ad adottare misure urgenti per porre immediatamente fine a ogni violenza e a garantire i diritti umani di tutte le persone.
I paesi che hanno espresso parere negativo, oltre che il Myanmar, sono Cina, Russia, Vietnam, Bielorussia, Cambogia, Laos, Filippine e Zimbabwe. La risoluzione non è vincolante, ma esprime e riflette l’opinione diffusa da parte dell’opinione pubblica internazionale e di vari paesi verso una crisi umanitaria che si perpetua ormai da diversi anni.
La “crisi dei Rohingya” non è però un fenomeno nuovo. Il Myanmar, dove la maggior parte dei cittadini è buddista, ha a lungo considerato i Rohingya come “bengalesi” dal Bangladesh, anche se le loro famiglie hanno vissuto nel paese per generazioni e hanno dovuto fuggire da brutali campagne militari e da indicibili atrocità.
Il conflitto tra i Rohingya e gli altri abitanti dello stato del Rakhine, la maggioranza buddhista birmana, cominciò durante il Secondo conflitto mondiale allorquando, dopo l’invasione giapponese della Birmania, i Rohingya appoggiarono le forze britanniche e non quelle giapponesi, come invece fecero i birmani buddisti, divenendo oggetto di diverse discriminazioni. Dall’indipendenza nel 1948 i successivi governi birmani, ribattezzati Myammar nel 1989, hanno negato il riconoscimento del gruppo come une delle 135 minoranze etniche ufficialmente riconosciute nel paese. Essendo pertanto ritenuti “migranti illegali” dal Bangladesh, nel 1982 con Legge sulla Cittadinanza che ha classificato le minoranze in otto gruppi principali, fu negata loro la cittadinanza, rendendo effettivamente il gruppo apolide e privati di altre libertà fondamentali. L’attuale crisi umanitaria può infatti essere considerata una conseguenza del mancato riconoscimento della cittadinanza e dell’effetto retroattivo della legge del 1982. Il governo del Myanmar ha effettivamente istituzionalizzato la discriminazione nei confronti del gruppo etnico adottando una sistematica “denazionalizzazione” con le conseguenti deprivazioni e limitazioni dei loro diritti. Non è, ad esempio, consentito loro di possedere terreni, di viaggiare senza un permesso ufficiale e per spostarsi al di fuori della loro municipalità devono ottenere l’approvazione del governo. E quando si sposano sono tenuti a firmare un impegno a non avere più di due figli.
La crisi dei Rohingya è esplosa nell’agosto 2017, quando l’esercito del Myanmar, il Tatmadaw, ha lanciato una repressiva campagna di sgombero nella regione del Rakhine, nell’ovest del paese, come risposta agli attacchi terroristici orditi dall’organizzazione ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) ai danni delle forze armate nazionali. La campagna ha portato a un massiccio esodo di Rohingya e alle accuse secondo cui le forze di sicurezza si sono rese responsabili di crimini contro l’umanità tra i quali uccisioni di massa di donne uomini e bambini, stupri e altre forme di violenza sessuale contro donne e ragazze minorenni, deportazione di massa e incendi sistematici dei villaggi. Con l’esplosione delle violenze si è assistito a una sconfinata immigrazione illegale verso gli stati limitrofi ove i Rohingya, anche ricevendo il sostegno dai governi, sono costretti ad affrontare diverse situazioni di precarietà dovute alle limitate risorse e a pressioni interne.
Le atrocità compiute dall’esercito birmano sono state ampiamente documentate da un’indagine dell’ONU pubblicata nell’autunno del 2018, sulla base della Missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti sul Myanmar, istituita dal Consiglio dei diritti umani nel 2017 (risoluzione 34/22).
Secondo le stime le campagne militari, caratterizzate altresì da esecuzioni sommarie, hanno portato alla morte di circa 10.000 persone. Oltre 730.000 Rohingya, di cui 400mila bambini, riusciti a sottrarsi alle violenze perpetuate dall’esercito birmano, hanno trovato rifugio nel vicino Bangladesh, nei sovraffollati campi profughi di Cox’s Bazar mentre altri hanno attraversato il mare per raggiungere Indonesia, Malesia e Tailandia. Ad inasprire la situazione è il mancato riconoscimento, da parte del Bangladesh, dello status di rifugiati, nonostante lo siano a tutti gli effetti, che rende questa popolazione estremamente vulnerabile. Le Nazioni Unite hanno condannato la persecuzione dei Rohingya definendole un vero e proprio “esempio da manuale” di campagna di “pulizia etnica “. L’ONU, cosi come altre diverse organizzazioni, ha descritto la fuga dei Rohingya come il più rapido spostamento di un gruppo etnico dai tempi del genocidio del Ruanda del 1994 come appare dall’evidente intenzione delle forze di sicurezza birmane di distruggere questo gruppo etnico.
Nonostante la condanna unanime contro le violenze compiute a danno dei Rohingya, nessuna iniziativa internazionale rilevante o sanzione è stata imposta contro il governo birmano. Ad oggi infatti il Consiglio di sicurezza non ha adottato alcuna risoluzione giuridicamente vincolante in merito al conflitto dovuto ai veti posti in essere da Russia e Cina, che continuano ad accreditarsi come interlocutori diplomatici privilegiati del Myanmar. Mentre gli Stati Uniti hanno esortato le truppe del Myanmar a “rispettare lo stato di diritto, fermare la violenza e porre fine allo sfollamento di civili da tutte le comunità”, la Cina afferma che la comunità internazionale “dovrebbe sostenere gli sforzi del Myanmar nel salvaguardare la stabilità del suo sviluppo nazionale”. Inoltre il Consiglio di Sicurezza non si è avvalso nemmeno della sua autorità di rivolgersi alla Corte penale internazionale per avviare un’indagine sui crimini commessi. In questa empasse, la Corte Penale Internazionale (da non confondere con la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, anch’essa con sede all’Aja) ha più volte, invano, invocato la giurisdizione a perseguire i vertici delle forze armate del Tatmadaw, non potendo però agire efficacemente poiché il paese non risulta fra i firmatari dello Statuto di Roma del 1988. In questo contesto i paesi membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN) non hanno coordinato una risposta univoca verso la crisi, dovuto sia all’impegno dei suoi membri nei confronti del principio di non interferenza negli affari interni degli altri sia perché questi paesi mancano di quadri giuridici per proteggere i diritti dei rifugiati. Malesia, Myanmar, Tailandia e Indonesia non hanno ancora ad esempio ratificato la Convenzione relativa allo stato dei rifugiati del 1951 o il suo protocollo.
E così lo scorso ottobre il governo del Gambia, su incarico dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI), ha istituito un’inchiesta presso la Corte penale internazionale dell’Aja, la massima istituzione giuridica dell’ONU, nei confronti della Birmania per “genocidio”. Il Gambia, un piccolo paese dell’Africa occidentale a stragrande maggioranza musulmana già caratterizzato da un ventennio di regime e di sistematica violazione dei diritti umani, ha, infatti, denunciato il governo birmano di aver violato la Convenzione sul genocidio adottata nel 1948, di cui è parte. Sulla base del ricorso presentato dalla Repubblica del Gambia, la Corte internazionale di giustizia ha così deciso di esaminare il caso aprendo un’inchiesta sui presunti crimini contro l’umanità le cui audizioni si sono svolte fra il 10 e il 12 dicembre scorso. Solo dopo aver sentito le ragioni di entrambe le parti la Corte deciderà se avviare un processo.
Sarà difficile per il Gambia sostenere che il governo del Myanmar abbia commesso un genocidio semplicemente basandosi sui rapporti delle Nazioni Unite, data la rigida e specifica definizione di genocidio come previsto dal diritto internazionale. In questo contesto il Gambia difatti dovrà dimostrare chiaramente che c’è stata “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte”, un gruppo nazionale, etnico, religioso o razziale “da parte dell’esercito della Birmania, secondo quanto riportato dall’art.2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. L’intenzione di annientare parti dell’intera comunità Rohingya deve essere dedotto dai vari eventi che sono stati commessi nello stato di Rakhine. I documenti delle Nazioni Unite indicano che il governo e l’esercito del Myanmar potrebbero aver compiuto una pulizia etnica, piuttosto che un genocidio. Il riferimento alla pulizia etnica indica però che il Myanmar dovrà assumersi ardue responsabilità per le violazioni commesse.
Ma a fronte della denuncia di queste violazioni, il Myanmar ha sempre negato le accuse giustificando che questi sforzi internazionali violano la sua sovranità. Durante l’udienza di fronte alla Corte internazionale di giustizia Onu, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi – de facto alla guida del governo civile del Myanmar dal 2016 – leader birmana, attivista per i diritti umani e civili, ha smentito le accuse da parte della comunità internazionale circa il fatto di aver taciuto per le persecuzioni portate avanti dai militari del suo Paese contro i Rohingya, dichiarando che esso ha operato con il solo intento di neutralizzare i militanti dell’ARSA.
La continua negazione da parte delle autorità birmane dei crimini commessi, come dimostrato anche dalla forte opposizione del governo verso le indagini della missione internazionale, non fa altro che alimentare la violazione dei diritti fondamentali e deteriorare la condizione umanitaria dei Rohingya
La Comunità Internazionale dovrebbe fare pressione per l’avvio di una missione umanitaria e per l’accesso degli investigatori di diritti umani nello Stato del Rakhine. In questo contesto potrebbe essere necessario assicurare autentica continuità al dialogo con la leader Aung San Suu Kyi e con l’esercito birmano raggiungendo al contempo un consenso con la Russia e la Cina, quali partner privilegiati del Myanmar, data la loro notevole influenza sul regime come dimostrato dal recente voto contrario alla risoluzione dell’ONU che condanna gli abusi commessi nei confronti della minoranza musulmana.
La Corte Internazionale di Giustizia intanto dovrebbe adottare, come richiesto dal Gambia, misure provvisorie per prevenire ulteriori violazioni, in particolare l’eliminazione delle restrizioni agli aiuti umanitari, la cessazione di tutte le limitazioni alla libera circolazione, all’accesso ai servizi sanitari e all’istruzione per i bambini, nonché il divieto di distruggere prove necessarie alle indagini sul caso. L’assistenza umanitaria, garantita perlopiù da diverse organizzazioni internazionali, ha fino ad ora contribuito ad affrontare i bisogni primari e urgenti dei Rohingya, ma le condizioni sono precarie. Le semplici condanne internazionali e l’assistenza umanitaria, pertanto, non posso da sole risolvere questa crisi se non seguite da azioni concrete e strutturali volte ad affrontare le cause profonde della crisi principalmente il problema della cittadinanza al fine di garantire soluzioni reali di medio-lungo termine, che si traducono quindi in condizioni di vita dignitose, soprattutto dei bambini, vittime innocenti di una crisi senza tempo.