di Paolo Falconio * –
Mi è piaciuta molto questa definizione data da Gilles Touboul, analista israeliano, in una sua analisi sul vertice Xi – Trump. Ora io non mi faccio interprete della sua analisi che invito a leggere, ma mi approprio di questa definizione perché penso riassuma alla perfezione la postura USA nel vertice sino-americano.
Dalle forme alla sostanza emerge una fragilità della posizione americana. Una posizione di realismo politico la cui matrice, a mio avviso si può rintracciare in due considerazioni. La prima interna tesa a non pregiudicare ulteriormente gli economics degli USA, cosa che una guerra commerciale con la Cina avrebbe determinato, soprattutto in termini di reazione di mercato, ma anche e soprattutto le attuali vulnerabilità industriali americane che non permettono agli USA di pensare oggi ad uno scontro diretto con il Dragone: dalla logistica, come la cantieristica navale, alle materie prime raffinate (Allison 2017). Settori che richiederanno del tempo per riequilibrare lo status quo. Da un punto vista internazionale, la guerra in Ucraina e una pseudo pace assai fragile in Israele rendono impossibile un disimpegno americano totale da queste aree (Nye 2020). Se si aggiunge la possibile nuova avventura venezuelana (definita folle dal vertice militare che l’avrebbe dovuta comandare e che ha scelto la pensione in polemica) si comprende bene come una composizione momentanea fosse l’unica strada percorribile.
Dal punto di vista formale e la forma per i cinesi è sostanza, abbiamo visto un Trump verboso, che ha riconosciuto lo status di superpotenza alla Cina o almeno la ha trattata come tale e che, al contrario di tutte le amministrazioni precedenti, non ha mai nominato Taiwan. Al contrario Xi è rimasto taciturno e molto parco nei complimenti.
Ne esce, sul piano della percezione, una Cina rafforzata nella fiducia in se stessa, nonostante i suoi notevoli problemi interni che pur persistono, tanto che in Cina il dibattito è stato dominato dal Nuovo piano quinquennale.
Quanto sopra però non deve fare pensare a una pace sistemica. La crescente militarizzazione delle acque nel mar cinese meridionale, le annunciate componenti sottomarine nucleari delle due coree danno il segno di una sfida rinviata e di un’America che non rinuncia al contenimento. Il corollario è la necessità cinese di avere buoni rapporti con la Russia che, oltre a fornire l’energia necessaria alla competizione tecnologica, garantisce una situazione stabile nei mari a nord e la possibilità delle rotte artiche.
Insomma chi vede in questo vertice una normalizzazione dei rapporti sino americani, non ne vede le implicazioni sistemiche, come la governance tecnologica, che al momento rimangono irrisolte.
Sullo sfondo Taiwan, tema discusso negli USA, ma che se lasciata al suo destino, porterebbe al rischio concreto di una pesante perdita di influenza nel sistema di alleanze nell’Indopacifico. Insomma un vertice di natura transitoria e tattica. Non si tratta di una vera distensione, ma di una sospensione strategica, utile a entrambi i contendenti.
* Member of the Honorary Governing Council and lecturer at the Society of International Studies (SEI). Profesor de máster en la Universidad CEU Ferdinando III.












