di Dario Rivolta * –
Gli Stati Uniti sono un Paese che la natura ha dotato di grandi ricchezze naturali sia in termini paesaggistici sia agricoli sia come quantità e varietà di materiali utili per le attività industriali e la vita di tutti i giorni. Nel corso dei recenti secoli i suoi abitanti ci hanno aggiunto del loro costruendo collegamenti stradali e ferroviari tra Nord e Sud e tra Est e Ovest. Inoltre, i fiumi, soprattutto il Mississippi, hanno favorito gli scambi delle merci interne a costi particolarmente ridotti. A differenza dell’attuale Federazione Russa che è pur più vasta e più ricca di materie prime, il clima degli States è più favorevole all’insediamento umano e ciò ha favorito lo sviluppo dell’agricoltura diffusa e la facilità degli spostamenti. Un ruolo molto importante per lo sviluppo economico lo ha svolto un sistema economico molto competitivo, favorito dalla buona laboriosità media degli americani. Il risultato è che, indubitabilmente, gli USA sono diventati la più grande economia del mondo. Con questi presupposti non c’è da stupirsi che, nell’ultimo secolo, gli Stati Uniti siano diventati anche la più grande potenza politica e militare di tutto il globo portandoli, a un certo momento (e precisamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica), ad essere per qualche anno la sola e unica superpotenza mondiale.
Da un decennio a oggi gli equilibri sembra che stiano cambiando È sotto gli occhi di tutti che la Cina, forte dei suoi un miliardo e trecento milioni di abitanti e di una economia che ha avuto per venti anni tassi di crescita incredibili, sia candidata a diventare un temibile concorrente per la supremazia mondiale e i suoi investimenti in attrezzature e tecnologie militari la stanno avvicinando anche al livello della potenza bellica americana. Il divario con gli USA è ancora molto forte, ma si sta assottigliando velocemente. Anche altri Paesi molto popolosi come l’India (un miliardo e quattrocento milioni di esseri umani) o il Brasile (230 milioni circa ma ricchissimo di materie prime e agricoltura) ambiscono ad avere un ruolo politico importante. E non va dimenticata la Russia, relativamente piccola (140 milioni) ma ancora la più grande potenza militare nucleare del mondo.
Una delle caratteristiche che, tuttavia, garantiscono agli USA una forza politica che gli altri non hanno è il valore economico e politico del dollaro che è universalmente riconosciuto come la valuta più sicura e più usata dai privati e da tutti gli operatori economici di tutto il globo.
Il fatto che il dollaro abbia tale forza in confronto a tutte le altre valute è particolarmente importante nel rafforzare il potere politico degli Stati Uniti e nel garantire a tutti gli americani di poter vivere quotidianamente al di sopra dei propri mezzi. La Banca Centrale Americana, la Federal Reserve, stampa dollari non in proporzione alla quantità di oro posseduto o sul valore certificato del PIL, bensì su considerazioni di politica economica e su strumenti economici e finanziari come i tassi di interesse e le operazioni di mercato aperto, da lei stessa stimati. È evidente che tali valutazioni possono risultare molto soggettive e discutibili ma, fino a che la fiducia nel dollaro continua a sussistere mondialmente ed è garantita la sua diffusione anche fuori dal Paese, la FED ne può stampare quanti ne vuole senza temere più di tanto effetti inflazionistici interni.
In realtà, un qualche rischio per il valore del dollaro si è manifestato in più momenti nel recente passato, ad esempio quando il Congresso ha tardato ad autorizzare spese che avrebbero aumentato il debito pubblico. Se l’autorizzazione non fosse arrivata, lo Stato non sarebbe stato in grado di pagare stipendi, opere pubbliche già intraprese, tutti gli impegni del Governo Federale e i Buoni del Tesoro emessi. In altre parole, gli USA avrebbero dovuto dichiarare temporaneo fallimento (salvo interventi straordinari della FED) e il dollaro avrebbe perso credibilità. Se gli Stati Uniti fossero stati un Paese qualunque, in quei momenti la sua valuta si sarebbe deprezzata perché il debito americano rispetto al suo PIL è enorme. Parliamo di 34,6 trilioni di dollari (milioni di milioni =34,6.000.000.000.000) di debito pubblico a giugno del 2024, cui si devono aggiungere altri 42,59 trilioni quale debito privato (tra debito delle famiglie e quello delle imprese). Le cifre sono di per sé già impressionanti ma calcolate in percentuale sul PIL rendono di più l’idea: debito pubblico americano = 118% del PIL, debito privato =154% del PIL. Per dare un’idea, il debito pubblico italiano è al 138% del PIL ma corrisponde solo(sic!) a 2907 miliardi di euro e il debito privato è al 106% del PIL e cioè 2221 miliardi di euro.
A quanto sopra si deve aggiungere che l’uso fatto dagli americani delle sanzioni contro Paesi giudicati non graditi a Washington, l’impossibilità dell’utilizzo del sistema Swift (le transazioni via Swift sono comunque tutte controllabili da New York), la proibizione per Russia, Iran e Corea del Nord di commerciare in dollari hanno invogliato molti Paesi, anche attuali alleati degli USA, a pensare ad una possibile valuta alternativa. Inoltre il blocco delle riserve valutarie russe in dollari non ha fatto che allarmare tutte le banche centrali che si sono interrogate su cosa potrebbe succedere se i loro governi dovessero, per un qualunque motivo, scontrarsi con gli interessi statunitensi. Non sarebbe quindi una sorpresa se il dollaro dovesse rapidamente perdere la sua attrattiva e il suo potere. Tuttavia, almeno per ora o in misura significativa non sta succedendo. Paradossalmente, ad una attenta osservazione sembra che stia succedendo il contrario e il mantenimento del tenore di vita dei cittadini americani della classe media e la ricchezza spropositata dell’élite benestante restano garantite.
È naturale che altri Paesi desiderosi di accrescere il loro peso negli equilibri globali stiano da tempo cercando di trovare metodi di pagamento e di finanziamento differenti dal dollaro ma finora senza alcun vero risultato. Verso la fine del primo decennio di questo secolo fui invitato a partecipare a un incontro dove economisti e politici di vari Paesi discutevano sulla possibilità/necessità di individuare una qualche soluzione ma fu chiaro a tutti che nessuna valuta internazionale era ancora in grado di sostituire quella statunitense. Si ipotizzò che l’alternativa potesse essere un paniere di monete (come si fece in Europa prima dell’introduzione dell’Euro) comprendenti yuan cinese, rublo russo, rupia indiana e, magari, euro. Si trattava però di pura fantasia, sia per le difficoltà politiche di unificare la volontà e gli interessi di quei Paesi sia per la scarsa affidabilità individuale di alcune di quelle monete. Nel 2010 Pechino cercò di iniziare l’internazionalizzazione della propria moneta e nel 2015 circa il tre percento delle transazioni di pagamento internazionali si realizzò in yuan (nel 2010 era zero). Tuttavia, la crisi cinese nel 2014 e nel 2015 con una crescente fuga di capitali obbligò il Governo a rendere quasi impossibile l’esportazione di valuta dal Paese e ciò spaventò tutti i possibili utilizzatori stranieri. È pur vero che, da allora, gli scambi in moneta propria tra alcuni Stati Brics e pochi altri sono aumentati ma ciò è valso solo per le transazioni bilaterali. La quota mondiale di riserve valutarie globali in renmimbi (è la valuta per gli scambi esteri dello yuan) è rimasta sotto il tre percento. Per un certo periodo qualcuno pensò che l’euro avrebbe potuto diventare una buona alternativa. Nel 2009 la quota della nostra moneta nelle riserve valutarie globali arrivò al 29%, dopo essere stata solo il 18% nel 2001. Fu un fuoco di paglia: oggi è tornata sotto il 20%. Anche nella valuta ufficiale creata dal Fondo Monetario Internazionale (1969) come riserva dei Paesi membri il valore veniva dato da un peso rispettivo tra dollaro, euro, sterlina britannica e yen giapponese. La somma totale dei pesi, considerata uguale a 100, dava la preminenza al dollaro seguita dall’euro e poi dallo yen e infine dalla Sterlina. Nel 2016, grazie all’aumentata potenza economica della Cina fu introdotto anche il renmembi con un peso del 10.9%. Lo spazio per questa nuova valuta fu però trovato diminuendo soprattutto il peso dell’euro che passò dal 37% al 31. Nel 2022 con la revisione che si fa ogni cinque anni, per consentire un aumento del renmembi al 12,3%, tutte le altre valute hanno perso terreno, salvo il dollaro, L’euro è sceso al 29%.
La ragione sta nel fatto che i mercati finanziari degli USA sono molto più grandi di quelli di ogni altro Paese, il dollaro è liberamente quotato sui mercati valutari internazionali e vendere o comprare in questa valuta è più facile, offre meno rischi ed è meno costoso. Nonostante la quota degli Stati Uniti nel commercio mondiale superi di poco l’11%, più della metà dei pagamenti internazionali continua ad essere in dollari e in questa moneta si valorizza il 59% delle riserve valutarie delle Banche Centrali mondiali. La domanda di titoli del tesoro americano da tutte le parti del globo contribuisce a finanziare il debito pubblico del Governo statunitense e consente alla FED di attirare gli investitori pur mantenendo bassi i tassi di interesse.
In mancanza di una valuta veramente alternativa, nonostante il desiderio di molti di affrancarsi da quella americana, qualcuno ha immaginato che le monete digitali come il Bitcoin potessero essere la giusta soluzione. In effetti, usare tale forma di pagamento consente di evadere lo Swift, di non essere totalmente rintracciabile e di evitare di essere soggetti alla volontà, possibilmente ostile, di Washington. Purtroppo per chi lo pensava, tali monete sono esageratamente speculative e il loro valore può subire oscillazioni incontrollabili ma soprattutto imprevedibili. Inoltre, non sono idonee per transazioni di grande entità. Ci ha provato Facebook e, visto l’uso molto diffuso di questo social, avrebbe potuto godere di grande successo e popolarità. La criptovaluta (chiamata prima Libra e poi DIEM) sarebbe stata supportata da una riserva di asset stabili, come valute fiat e titoli di stato a breve termine per ridurre la volatilità ma è stata, comprensibilmente, ostacolata da tutti gli Stati e principalmente dagli stessi USA. A gennaio 2022, il progetto Diem è stato interrotto e gli asset sono stati venduti.
Sicuramente più affidabili potrebbero essere le valute digitali garantite dai Governi emittenti, sempre che tali Governi siano considerati affidabili. Cina, India e Giappone le stanno già testando e anche l’euro digitale è in arrivo. Tali nuove valute, se prendessero piede, potrebbero veramente diventare una forte concorrenza per il dollaro e metterne a rischio il dominio sui mercati internazionali. Si tratta però di un rischio del tutto da dimostrarsi e non a breve termine.
C’è, comunque, un altro motivo per cui la dominanza del dollaro americano non sarà facilmente scalfita salvo sconvolgimenti molto gravi non ancora prevedibili. Si tratta del fatto che gli investitori stranieri detengono più attività finanziarie negli Stati Uniti di quanto gli investitori americani hanno all’estero. Nel 2024 le passività americane verso l’estero corrispondono circa a 51 trilioni di dollari mentre le attività su altri Paesi sono vicine ai 33 trilioni. In altre parole, gli USA sono debitori in dollari verso il resto del mondo. Se il mondo facesse crollare il valore di questa valuta i beni statunitensi all’estero aumenterebbero di valore rispetto al dollaro mentre gli stranieri che convertissero i loro crediti nelle valute nazionali avrebbero solo da perdere. Se succedesse, il Governo americano ci guadagnerebbe pagando i debiti con una moneta svalutata.
Con buona pace di chi fantastica diversamente, quindi, il dollaro continuerà a dominare ancora a lungo e noi continueremo a finanziare, anche senza volerlo, il benessere degli americani con i risparmi del resto del mondo.
* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.