di Lucio Cornelio Silla –
Dalla competizione imperiale dell’Ottocento alle analisi di Edward Luttwak, il filo rosso che lega conflitto militare, potere economico e dominio geopolitico. La storia mostra come la proiezione economica delle potenze resti parte integrante delle strategie di supremazia globale.
Nel panorama del pensiero strategico contemporaneo, la figura di Edward Nicolae Luttwak occupa una posizione di rilievo assoluto, quale teorico capace di cogliere con straordinaria lucidità il passaggio epocale che, tra la fine del XX secolo e l’alba del XXI, ha trasformato le dinamiche della competizione globale. Formatasi all’incrocio tra analisi geopolitica, economia internazionale e teoria militare, la riflessione di Luttwak si colloca nel punto di congiunzione tra le logiche del conflitto e quelle dello scambio, delineando una sintesi che egli stesso, in un’intuizione destinata a divenire concetto stabile nel lessico strategico, definisce “geo-economia”. Con tale termine, introdotto formalmente nei primi anni Novanta, egli non si limita a descrivere un’evoluzione semantica o una moda concettuale, bensì individua una trasformazione strutturale del modo in cui le potenze agiscono e si confrontano nello spazio globale: un passaggio dalla logica della forza militare alla grammatica della potenza economica, senza tuttavia negare la continuità sottostante del conflitto. Nelle sue opere, in particolare From Geopolitics to Geo-Economics: Logic of Conflict, Grammar of Commerce (1990), The Coming Global War for Economic Power (1993) e Endangered American Dream (1993), Luttwak elabora una teoria nella quale la competizione economica assume la funzione di prosecuzione della guerra con altri mezzi, sostituendo alle armi tradizionali gli strumenti dell’industria, della finanza e del commercio internazionale. Il suo pensiero, lucido e al tempo stesso provocatorio, muove da una constatazione tanto empirica quanto teorica: il mondo post-bipolare non è affatto un mondo pacificato, ma un campo di battaglia economico, in cui le nazioni si contendono l’egemonia non più attraverso la conquista territoriale, bensì mediante la capacità di plasmare le catene del valore, le infrastrutture tecnologiche e le regole del mercato globale. La geo-economia, così intesa, non rappresenta una negazione della geopolitica, ma la sua evoluzione: essa ne conserva la logica del potere e della competizione, trasponendola sul piano dell’interdipendenza economica e dell’influenza industriale. Luttwak, dunque, offre una chiave di lettura tanto teorica quanto predittiva della contemporaneità: in un’epoca in cui le guerre convenzionali cedono il passo a conflitti ibridi, sanzioni, guerre commerciali e competizioni per la supremazia tecnologica, egli mostra come la dimensione economica diventi il nuovo terreno di scontro strategico e come il controllo delle risorse produttive equivalga, di fatto, al controllo del potere.
Non è certo un caso che già Carl von Clausewitz, nell’elaborare i fondamenti di quella che può essere considerata la prima sistematizzazione teorica della scienza della guerra, avvertisse come, nel tentativo di rintracciare un modello analogo cui rapportarsi, fosse inevitabile volgere lo sguardo al commercio internazionale. Quest’ultimo, anche nella prima metà del XIX secolo, si mostrava privo di remore morali e disposto a piegare ogni principio pur di perseguire l’utile e l’espansione dei propri interessi. Perciò, nella sua famosa opera, titolata Della guerra, egli sostiene:
«Diciamo dunque che la guerra non appartiene all’ambito delle arti o delle scienze ma all’ambito della vita sociale. È un conflitto di grandi interessi che si risolve nel sangue – e soltanto in questo si differenzia dagli altri. Meglio che con qualsiasi arte la guerra potrebbe essere paragonata al commercio, che pure è un conflitto di interessi e di attività umane. Che da parte sua può essere vista di nuovo come una specie di commercio di dimensioni più grandi. Oltre a ciò la politica è il grembo in cui si sviluppa la guerra; in essa si trovano abbozzati in modo embrionale i lineamenti della guerra come le proprietà delle creature viventi nel loro embrione» (Von Clausewitz, Carl, Della guerra, Torino, Einaudi, 2007, pp. 94-95.).
Dunque, a titolo di digressione tematica, e con l’intento di offrire un esempio concreto capace di illuminare l’irrimediabile interconnessione tra proiezione economica e costruzione imperiale, è opportuno soffermarsi sulle cosiddette Guerre dell’Oppio che segnarono in profondità il XIX secolo.
Da una parte, la Prima Guerra dell’Oppio (1839–1842) vide contrapposte, da un lato, l’Inghilterra vittoriana — alla guida del suo vasto e transcontinentale Impero Britannico — e, dall’altro, la Cina del declinante Impero Qing, già appesantito da una struttura burocratica inerte e da un’economia rigidamente tradizionale.
Dall’altra parte, pochi anni più tardi, la Seconda Guerra dell’Oppio (1856–1860) rinnovò il confronto in forma ancor più aspra: questa volta la Francia, protesa nell’espansione del proprio impero coloniale, si unì a Londra in una coalizione volta a piegare definitivamente la resistenza cinese e a imporre condizioni commerciali di netto vantaggio per l’Occidente.
Entrambi i conflitti si conclusero con una vittoria pressoché totale delle potenze europee, sancendo la sottomissione del “Celeste Impero” alle logiche del commercio internazionale e segnando, di fatto, l’ingresso della Cina nel sistema mondiale dominato dalle potenze industriali d’Occidente.
Il cosiddetto Celeste Impero, uscito sconfitto da entrambi i conflitti, fu costretto a subire le conseguenze politiche ed economiche di una disfatta che ne avrebbe segnato a lungo la storia. Pechino dovette infatti tollerare la prosecuzione del commercio dell’oppio, pratica che fino ad allora aveva tentato di arginare, e accettare la stipula di due trattati estremamente onerosi con la Corona britannica: quello di Nanchino (1842) e quello di Tientsin (1858). Tali accordi sancirono l’apertura forzata di nuovi porti al traffico commerciale internazionale, la concessione di ampi privilegi extraterritoriali ai sudditi occidentali e, soprattutto, la cessione per novantanove anni dell’isola di Hong Kong al Regno Unito. Si trattò, in sostanza, di una resa diplomatica che trasformò la Cina da potenza millenaria chiusa in sé stessa a teatro di espansione economica e strategica delle potenze europee. Considerando questi eventi emblematici, risulta evidente come il risvolto economico e commerciale della guerra costituisca parte integrante della logica imperiale. Le potenze vincitrici non si limitarono ad affermare la propria supremazia militare, ma imposero anche un nuovo ordine economico fondato sull’apertura forzata dei mercati e sull’estensione transnazionale dei capitali.
Appare dunque chiaro come le diramazioni economiche di un impero non rappresentino soltanto la naturale conseguenza della sua potenza, ma ne costituiscano al tempo stesso strumento strategico di dominio e di proiezione d’influenza, funzionale al mantenimento e all’espansione della propria egemonia globale.
Per quanto concerne la Cina, e volendo concludere l’esemplificazione sin qui condotta mediante il richiamo a tali eventi storici, è opportuno ricordare come, all’indomani delle Guerre dell’Oppio, ebbe inizio quella lunga stagione che la storiografia definisce come l’era dell’imperialismo europeo in Asia orientale. Perciò, gli esiti di quei conflitti, infatti, non solo ridussero drasticamente la sovranità del Celeste Impero, ma aprirono la strada a un progressivo smembramento economico e politico del suo territorio. Numerose altre potenze europee – tra cui la Germania, la Russia zarista e l’Impero austro-ungarico – seguirono presto l’esempio tracciato da Londra e Parigi, affrettandosi a stipulare con Pechino una serie di trattati commerciali asimmetrici, concepiti esclusivamente a loro vantaggio. Nonché, sotto la tacita supervisione e nei limiti imposti dalle due principali potenze vincitrici, tali accordi permisero una vera e propria spartizione economica della Cina, trasformata in campo d’azione e di profitto per interessi stranieri, mentre il governo Qing assisteva impotente all’erosione della propria autorità.
Non sorprende, dunque, che una parte significativa della storiografia, in particolare quella cinese, individui proprio in questi avvenimenti l’origine del cosiddetto “Secolo dell’Umiliazione” (Bǎinián guóchǐ), un lungo periodo di crisi, dominazione e disgregazione nazionale che avrebbe trovato il proprio epilogo soltanto nel 1949, con la vittoria delle forze rivoluzionarie guidate da Mao Zedong e la nascita della Repubblica Popolare Cinese. Tale arco temporale, denso di umiliazioni e di profonde trasformazioni, rappresenta nella memoria storica cinese non solo la perdita della sovranità imperiale, ma anche l’inizio di una dolorosa consapevolezza: quella del legame inscindibile tra debolezza politica interna e vulnerabilità economica di fronte alle grandi potenze straniere. Perciò, l’osservazione delle dinamiche storiche mostra come, nei processi di formazione e di espansione delle potenze, la dimensione economica e commerciale non si presenti mai come elemento accessorio, bensì come componente strutturale della strategia di potenza. In ogni epoca, il conflitto politico e quello militare si intrecciano intimamente con la proiezione economica, dando luogo a un’unica logica di espansione funzionale all’accumulazione di risorse, all’accesso ai mercati e al controllo delle vie di comunicazione.
Le guerre o le crisi che segnano la storia dei sistemi internazionali, al di là delle loro motivazioni immediate, riflettono quasi sempre la tensione tra poli di potere che cercano di ridefinire i propri spazi di influenza economica e di assicurarsi posizioni strategiche entro l’ordine globale. La forza militare, in tale prospettiva, non è che la manifestazione visibile di un equilibrio economico sottostante: essa interviene quando la competizione commerciale o finanziaria non riesce più a garantire, da sola, il mantenimento di un vantaggio strategico.
Ne deriva una lezione fondamentale: la potenza militare, e prima ancora politica, e la potenza economica costituiscono due aspetti inseparabili di un medesimo sistema di forza. L’una sostiene e amplifica l’altra, e la loro interazione determina la capacità di uno Stato, o di un insieme di Stati, di imporre un ordine conforme ai propri interessi. L’economia, pertanto, non solo alimenta lo strumento militare, ma ne orienta la finalità; allo stesso modo, il potere politico e strategico agisce come garante e moltiplicatore della proiezione economica. Cioè, l’interconnessione fra questi tre livelli, geo-economico, geo-strategico e geopolitico, costituisce la matrice permanente di ogni sistema di potere: essa spiega perché l’espansione commerciale sia spesso accompagnata da un consolidamento politico e militare, e perché la perdita di autonomia economica tenda, nel lungo periodo, a tradursi in una riduzione della sovranità politica e della capacità decisionale. In ultima analisi, la storia insegna che nessuna potenza può sostenere la propria egemonia se non dispone di una base economica capace di proiettarsi strategicamente e di un apparato politico-militare in grado di garantirne la sicurezza e la continuità. L’economia genera la potenza; la strategia ne dirige l’uso; la politica ne legittima l’espansione.
Da questa triade inscindibile discende la logica profonda dell’ordine internazionale, ieri come oggi.
Dunque, è proprio sulla scia di questo ragionamento strutturale, e nell’ottica di una riflessione di portata generale e sistemica, non limitata ai singoli casi storici ma volta a cogliere le dinamiche profonde del rapporto tra potenza, economia e strategia, che tali questioni sono state indagate in modo approfondito, a partire dal periodo compreso tra il 1990 e il 1993, dallo stratega statunitense Edward Nicolae Luttwak.
Quest’ultimo, con acume teorico e straordinaria lucidità analitica, ha dedicato una parte significativa dei suoi studi alla trasformazione del conflitto e del potere nella dimensione economica globale, elaborando una prospettiva innovativa che avrebbe profondamente influenzato il pensiero strategico contemporaneo.
Fu proprio Luttwak, infatti, a formalizzare e introdurre stabilmente nel lessico delle relazioni internazionali il concetto di “geo-economia”, definendolo come l’evoluzione naturale della competizione tra potenze in un’epoca in cui l’economia — più che la guerra convenzionale — diviene lo strumento principale attraverso cui si esercita l’influenza, si consolidano le sfere di potere e si ridefiniscono gli equilibri globali.
In special modo, l’acume concettuale e la profondità del pensiero strategico di Edward Nicolae Luttwak trovano piena espressione in tre fondamentali pubblicazioni, due articoli e una monografia, che, nel loro insieme, delineano con chiarezza la transizione teorica dalla geopolitica tradizionale alla geo-economia come nuova logica dei rapporti di forza globali:
1. Luttwak, Edward Nicolae, From Geopolitics to Geo-Economics: Logic of Conflict, Grammar of Commerce, in The National Interest, Washington D.C., U.S., National Affair Inc., No. 20, 1990, pp. 17–23;
2. Luttwak, Edward Nicolae, The Coming Global War for Economic Power, in The International Economy (magazine), Washington D.C., U.S., The International Economy Publications Inc., Issue: Fall (September – October) 1993;
3. Luttwak, Edward Nicolae, Endangered American Dream: How to Stop the United States from Becoming a Third-World Country and How to Win the Geo-Economic Struggle for Industrial Supremacy, New York, U.S., Simon & Schuster, 14 October 1993.
Tra questi scritti, merita particolare attenzione il secondo dei due articoli, The Coming Global War for Economic Power, che già nel titolo racchiude l’essenza del suo pensiero. In esso, Luttwak mostra di cogliere con straordinaria lucidità la natura profonda della competizione tra i poli di potere globali, individuando nell’economia, e non più esclusivamente nella guerra convenzionale, il campo principale entro cui si dispiega la contesa per la supremazia.
La sua riflessione prefigura così l’avvento di una nuova fase storica, in cui la logica del conflitto permane, ma si traveste di strumenti economici, industriali e finanziari: una “guerra globale per il potere economico”, nella quale il successo non si misura più con la conquista territoriale, bensì con la capacità di imporre la propria egemonia produttiva, tecnologica e commerciale.
Difatti prendendo, tra questi testi, il secondo dei due articoli per fini esemplificatori, egli dimostrava di comprendere in modo chiaro e distinto, aspetto evidente fin dal titolo, che cosa sia lo stato naturale della competizione tra diversi poli strategici di potere: The Coming Global War for Economic Power, non a caso, è traducibile in italiano come: “la sopraggiungente guerra globale per il potere economico” (potere qui inteso evidentemente nell’accezione di supremazia e superiorità).
Dunque, in primo luogo, a partire dal 1990, con il saggio From Geopolitics to Geo-Economics: Logic of Conflict, Grammar of Commerce, Edward N. Luttwak individua una trasformazione profonda nelle dinamiche della competizione internazionale: con il tramonto dell’era bipolare, segnata dal confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e l’avvento della globalizzazione post-1989, le potenze tendono progressivamente a sostituire gli strumenti militari con quelli economici come principale mezzo di affermazione strategica. La “logica del conflitto”, secondo Luttwak, non scompare, ma muta linguaggio: essa si esprime ora attraverso la competizione economica strutturale, fondata su industria, tecnologia e commercio, anziché sullo scontro armato diretto. In tale quadro, la cooperazione globale si accompagna, spesso al di sotto della superficie delle narrazioni ufficiali, a una rivalità costante e sistemica per il controllo delle risorse, dei mercati e delle reti di produzione.
Nonché, in secondo luogo, nel corso del 1993, con The Coming Global War for Economic Power, Luttwak amplia e approfondisce la sua precedente intuizione: le sfide tra le grandi potenze non si definiscono più principalmente attraverso l’impiego delle armi, bensì attraverso la capacità di esercitare controllo sulle infrastrutture produttive, sulle catene globali del valore e sui centri dell’innovazione tecnologica. La supremazia nazionale, in questa prospettiva, non si misura più soltanto in termini militari, ma nella padronanza dei processi economici e industriali che determinano la posizione di forza di uno Stato nel sistema internazionale. La competizione economica, dunque, diventa il terreno privilegiato su cui si articolano le relazioni di potere contemporanee, una forma di confronto strategico condotta con strumenti economici e finanziari, ma animata dalla medesima logica di rivalità e di ricerca della supremazia che aveva caratterizzato le fasi precedenti della storia geopolitica.
Alfine, d’altra parte, sempre nel 1993, con Endangered American Dream, Luttwak compie un’analisi puntuale delle condizioni interne degli Stati Uniti che potrebbero minarne la posizione strategica nel mondo emergente. Egli mette in luce come il declino della base manifatturiera, la perdita di competitività nei settori ad alta tecnologia, le lacune nell’innovazione e l’insufficiente investimento nelle infrastrutture (strade, ponti, sistemi energetici, ricerca) siano non fenomeni marginali, ma nodi critici che compromettono la capacità nazionale di proiezione economica e tecnologica. Luttwak sottolinea che il calo dei salari reali, la diminuzione del risparmio nazionale, l’aumento del debito federale e privato, insieme a una crescente disparità nel benessere, non sono soltanto problemi sociali interni, ma fattori che incidono direttamente sul potere competitivo internazionale degli Stati Uniti. Inoltre, egli critica l’eccessiva fiducia nel libero mercato come soluzione universale, mettendo in guardia contro l’idea che il commercio senza regole, la dipendenza dalle importazioni di tecnologie avanzate o il permettere che l’industria nazionale venga progressivamente smantellata (o che i lavori migliori migrazioni verso zone a basso costo) non abbiano ripercussioni strategiche. Luttwak propone misure correttive: una politica industriale coordinata a livello federale, investimenti mirati in ricerca e sviluppo, valorizzazione dell’istruzione tecnica e accademica con standard nazionali, così come interventi fiscali che incoraggino il risparmio, la produzione interna e riducano il consumo improduttivo. Infine, Luttwak avverte che l’erosione della coesione sociale, dovuta in parte alla percezione di disuguaglianza, al declino economico vissuto da vaste fasce della popolazione media, e alla mancanza, secondo lui, di una narrativa nazionale forte che colleghi prosperità economica e sicurezza strategica, può diventare essa stessa una vulnerabilità geo-economica: perché uno Stato che perde credibilità interna o che non riesce più a essere percepito come capace di assicurare condizioni di vita decenti, rischia di perdere non solo influenza ma anche la capacità operativa di difendersi in uno scenario di competizione globale.
In conclusione, la lezione che emerge dal pensiero di Edward N. Luttwak, come pure dal lungo percorso storico che lega economia, politica e strategia, è quella di una continuità profonda tra le forme tradizionali del potere e le sue manifestazioni contemporanee. La geo-economia non rappresenta un’alternativa alla geopolitica, ma la sua naturale estensione nel mondo interdipendente del XXI secolo: una dimensione in cui le logiche del conflitto si traducono in competizione tecnologica, commerciale e finanziaria, e in cui la capacità di una nazione di mantenere il proprio rango strategico dipende dalla solidità delle sue fondamenta economiche. Luttwak mostra come la potenza, per essere durevole, debba poggiare su una base produttiva autonoma, su un’innovazione costante e su una coesione interna capace di sostenere gli sforzi strategici nel lungo periodo. Nella sua prospettiva, il dominio non si esercita più soltanto attraverso la conquista territoriale o la forza militare, ma mediante la capacità di orientare i flussi di capitale, di dettare gli standard tecnologici e di condizionare le regole dello scambio globale. La competizione tra Stati, pur assumendo forme meno visibili, conserva la stessa natura di sempre: è una lotta per la supremazia, solo trasposta su scala economica. E in tale contesto, la potenza autentica non è più quella che vince le guerre, ma quella che riesce a evitarle, dominando la struttura economica del mondo, là dove si manifesta, in ultima analisi, l’essenza più profonda della geo-economia.












