La libertà di stampa nel mondo

di Maddalena Pezzotti

Reporters sans frontières o Reporter without borders, organizzazione non profit con sede a Parigi e status consultativo presso le Nazioni Unite, è stata fondata in linea con l’articolo 9 della Dichiarazione universale dei diritti umani, e l’obiettivo di salvaguardare il diritto all’informazione. Rilascia un rapporto su base annuale, il World press freedom index, che analizza lo stato dell’arte della libertà di stampa in 180 paesi ed è arrivato alla sua ventesima edizione. Secondo i risultati rilevati, nel 2022, si è evidenziata una polarizzazione dei mass media, riflesso di quella fra stati sul piano internazionale, che a sua volta l’ha alimentata, e un caos comunicativo dovuto agli effetti delle fake news, proliferate nello spazio deregolato di internet. Nelle società democratiche sono aumentate le divisioni a causa della diffusione di circuiti di disinformazione amplificati dai social media, che minano l’armonia civile e la tolleranza nel dibattito pubblico.
La guerra in Ucraina è un’illustrazione di queste tendenze, in quanto lo scontro è stato preceduto da una propaganda belligerante delle fazioni coinvolte, e di sostenitori e alleati da una parte e dall’altra, che ha coartato la collaborazione dei mezzi di comunicazione, distorto alcuni fatti e promosso visioni parziali. I confronti tra blocchi nazionalisti sono incrementati anche in altre regioni del mondo, per esempio in India e Pakistan, e in Medio Oriente; in quest’ultimo caso con un impatto diretto sui conflitti tra gli stati arabi e quello israelo-palestinese. L’alta presenza di media schierati inoltre ha rafforzato le contrapposizioni sociali interne, e le tensioni politiche, come negli Stati Uniti e in Francia. La soppressione di spazi indipendenti e la vessazione della dissidenza, osservate in Cina, Russia, Bielorussia e Polonia, hanno consolidato posizioni di controllo dell’informazione.
Cinque criteri – scenario politico, quadro normativo, contesto economico, ambiente socioculturale e sicurezza – sono alla base della valutazione, per ognuno dei quali viene assegnato un valore che va da 0 a 100. I punteggi penalizzanti per l’Italia sono arrivati dagli indicatori politici ed economici. Nel rapporto si fa riferimento alle soverchierie delle reti mafiose e a una diffusa autocensura. Il nostro paese (58°) perde diciassette posizioni, collocandosi appena sotto Romania e Macedonia, e di poco sopra a Niger, Ghana e Kosovo. Nell’Unione Europea (Ue), occupano una posizione peggiore solo Ungheria, Polonia, Cipro, Bulgaria, Malta e Grecia. In generale, la congiuntura è preoccupante in un numero record di 28 nazioni e 12 sono nella lista rossa. In fondo, si trovano Siria (171°), Iraq (172°), Cuba (173°), Vietnam (174°), Cina (175°), Myanmar (176°), Turkmenistan (177°), Iran (178°), Eritrea (179°), Corea del Nord (180°); mentre il podio è di Norvegia (1°), Danimarca (2°), Svezia (3°).
In Europa sono tornati gli assassii di giornalisti, avvenuti in Grecia (all’ultimo posto in Europa) e i Paesi Bassi; quelli di anni prima, a Malta e in Slovacchia, non sono ancora stati puniti, malgrado sviluppi nel campo della giustizia. In Germania, Francia, Italia e Paesi Bassi, cronisti, pregiudizialmente associati a posizioni governative, hanno subito violenti assalti fisici e verbali, e prepotenze di diverso tipo, da dimostranti facinorosi. In Slovenia, Polonia, Ungheria, Albania e Grecia, sono state intensificate leggi draconiane contro la stampa. Nel caso del Regno Unito, l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti, dopo lunghi procedimenti legali, ha creato un precedente deleterio per la libertà di stampa globale. Oltre a ciò, la disposizione dell’Ue, approvata al di fuori di qualsivoglia logica di diritto, di mettere al bando i mezzi di comunicazione russi, può essere usata nel futuro come pretesto per decisioni arbitrarie di premier populisti o illiberali che non mancano nell’Unione.
Il panorama in Nord Africa, escluso l’Egitto, non è mai stato così allarmante. In Algeria e Marocco la persecuzione giudiziale e la reclusione di giornalisti si è trasformata in routine, con ampi margini di impunità; la maggioranza delle testate di opposizione sono state bloccate o troncate in via definitiva. La libertà di stampa è sparita del tutto in Libia e Sudan, l’onnipresenza di forze militari regolari e irregolari esercita una forte pressione, e il vuoto istituzionale non garantisce le basi per un ripristino sicuro dell’infrastruttura dell’informazione. Alterne vicende in Mauritania e Tunisia hanno visto sia interludi promettenti, con la derubricazione dei reati di opinione in Mauritania, e l’incorporazione del principio della libertà di stampa nella nuova costituzione in Tunisia, sia il protrarsi di condizioni precarie nella pratica e il decreto di stati di emergenza che annullano i progressi ottenuti.
Nonostante un’epoca di liberalizzazione dell’editoria che, a partire dagli anni novanta, in Africa ha beneficiato la democratizzazione di paesi come il Senegal e il Sudafrica, permangono situazioni di totale chiusura a mezzi di comunicazione indipendenti, accompagnate, come in Eritrea e Gibuti, da sorveglianza e sanzioni, e ripetuti boicottaggi di internet. Leggi che criminalizzano il giornalismo e alti livelli di discredito sociale dello stesso, così come l’impatto dell’instabilità politica e dei conflitti armati interni, generano uno scenario in cui proliferano espulsioni, sequestri, detenzioni segrete, e omicidi, in Benin, Mali, Burkina Faso, e diverse forme di repressione di voci divergenti in Angola, Zimbabwe, Etiopia.
Il Medio Oriente continua a essere un’area non sicura per i giornalisti, caratterizzata da una spirale di violenza che si spinge fino a minacce di morte e uccisioni. L’inazione dello stato in Libano ha portato molti all’esilio. Il conflitto in Yemen ha mietuto vittime fra i reporter di guerra, ma altri sono stati oggetto di attentati specifici contro la loro persona. L’offensiva militare israeliana nella striscia di Gaza è costata un prezzo di sangue. Arabia Saudita e Turchia, con il loro dispotismo, sono vere e proprie prigioni per cronisti, con capi di accusa pretestuosi o infondati, che vanno da “insulti” all’autorità, ad “appartenenza a organizzazioni terroriste” e “propaganda”, interferenze nell’amministrazione della giustizia, dure condanne ed esecuzioni extragiudiziali. In Iran, i due principali responsabili di delitti commessi ai danni di rappresentanti della stampa, negli ultimi vent’anni, sono diventati presidente della repubblica e presidente della magistratura. Perdurano arresti arbitrari e incarceramenti senza le garanzie minime previste dagli strumenti internazionali.
Una vigilanza assoluta dell’informazione si manifesta in quei paesi dell’Asia e del Pacifico, in cui colpi di stato militari (Burma), la presa del potere di gruppi estremisti (Afghanistan), o il perpetuarsi di regimi autocratici (Corea del Nord), hanno fatto precipitare la qualità della convivenza civile e innalzato un’ondata di soprusi e violenza sugli oppositori. Sono state strette le maglie della libertà di stampa in Vietnam e Singapore. Questa si è deteriorata pure in India, Sri Lanka e Filippine, dove svolte nazionalistiche provocano operazioni di accanimento nei confronti di giornalisti critici, e ancora in Giappone, Corea del Sud e Australia, dove la pressione di grandi gruppi industriali, proprietari di assetti editoriali, incoraggia l’omologazione. Il territorio semiautonomo di Hong Kong, presieduto dalla Cina, ha avuto il crollo più drammatico nella classifica.
L’ambiente è tossico in America Latina. La retorica aggressiva contro i reporter e la trivializzazione del loro lavoro, a Cuba, e in Nicaragua, Venezuela, Messico, El Salvador e Brasile, viene tradotta in campagne collettive di intimidazione, harassment mirato a danno di individui, spesso donne, e abuso di azioni legali. Gli attacchi si affiancano, negli episodi più deplorevoli, a rapimenti e uccisioni. Il Nicaragua è franato nel ranking, perdendo trentanove posizioni, a seguito dell’imposizione del quarto mandato consecutivo del presidente, e il feroce annientamento del dissenso, che hanno provocato lo smantellamento dei mezzi di comunicazione alternativi, e un esodo forzato di giornalisti. El Salvador mantiene un governo che, dipingendo la stampa alla stregua del nemico del popolo, e forzando cambi legislativi che nuocciono alla libera espressione, lo fa scendere di trenta posizioni, e incassare per due anni consecutivi uno dei declini più gravi. Il tasso di omicidi del Messico lo rende il paese più pericoloso al mondo per i cronisti.
Negli Stati Uniti, benché si sia verificato un leggero miglioramento, persistono questioni croniche che includono la cessazione di testate locali, il radicalismo dei media, l’erosione della carta stampata fomentata dalle piattaforme digitali, e un clima di animosità verso i giornalisti. Persino in Canada, sebbene venga riconosciuto l’impegno sostenuto nel tempo per la protezione della libertà di stampa, i reporter nazionali hanno sofferto un trattamento ostile e inflessibile, in occasione della copertura dell’iter della riforma sanitaria. Il cambio di condotta dell’esecutivo è arrivato a far registrare arresti in concomitanza delle proteste indigene per la realizzazione dell’oleodotto in British Columbia, facendo retrocedere il paese di cinque posizioni.