di Gianvito Pipitone –
Essere poco social può sembrare snobismo. In realtà è spesso una scelta, un atteggiamento, a volte una forma di autodifesa. Un modo per non farsi travolgere dal flusso, per non inseguire il trend del giorno, la vendetta mediatica, il compiacimento algoritmico.
C’è chi, dopo aver fatto parte della tribù digitale, ha scelto la via ascetica. Una ritirata consapevole, quasi monastica, dettata dal bisogno di sottrarsi al rumore di fondo. Poi, per necessità professionale, però è tornato online. LinkedIn, Instagram, persino Facebook. Non per esibirsi, ma per dimostrare che si esiste. Una faccia per un nome. Perché nel mondo del lavoro, si sa, bisogna essere rintracciabili. Il rischio, altrimenti, è quello della non-esistenza. Quello di essere tagliati fuori. Se non si è online, non si esiste. Non è forse così? È il prezzo da pagare per restare nel radar.
Tuttavia, si può essere qualcuno anche con una presenza sobria, limitata, quasi discreta. Oppure con una presenza attiva, ma guidata da intelligenza, spirito e parsimonia. Ma questa qui, è bene chiarirlo da subito, non è una crociata contro i social, né contro chi li frequenta con grazia e senso critico. Non è il mezzo ad essere criticabile, ma il modo in cui lo si usa. I social network, come ogni strumento, riflettono ciò che vi si proietta: pensiero, ironia, grazia, ma anche rancore, frustrazione, livore. In certi casi anche odio. Il problema nasce invece quando l’identità viene nascosta. Dietro un nickname, un avatar, un profilo anonimo. È lì che spesso emerge il peggio. Umberto Eco li chiamava “legioni di imbecilli”. Ma il punto non è l’insulto. È il meccanismo. Tanto che si discute, in alcune sedi istituzionali, di una legge che imponga il riconoscimento online e la responsabilità piena per ciò che si scrive e si fa in rete. Vedremo.
Nel frattempo, osservando il panorama digitale, si nota l’ascesa decisa di una categoria particolarmente attiva: i filorussi. Una comunità emersa con forza dopo l’invasione dell’Ucraina, che si distingue per la sua rigidità ideologica e la totale impermeabilità al contesto. Per molti di loro, ogni premessa è superflua. Ogni sfumatura, inutile. Non serve ricordare Maidan, il 2004, la rivoluzione arancione. Non serve nemmeno provare a ragionare sulle ambiguità dell’Occidente, sul ruolo della CIA, sulle influenze esercitate nei paesi dell’ex Patto di Varsavia.
La rete, per questi vecchi e nuovi ammiratori della Russia, ha già emesso il verdetto: l’Occidente è colpevole. Su tutta la linea. Nessuno spazio per il dubbio, nessun punto di contatto, neppure con chi cerca di comprendere le ragioni profonde di certi conflitti. Niente da fare: ciò che è accaduto a Kiev viene letto sempre e solo in maniera unilaterale: come un saccheggio, un sabotaggio, una messa in scena orchestrata da CIA e NATO. A grandi linee, e senza troppe esitazioni, questa è la narrazione dominante in certi ambienti. E chi prova a mettere in discussione questo schema, viene subito bollato come complice, ingenuo, o peggio ancora, come venduto. Il popolo online che spesso si fa forza nell’anonimato.
Certo diventa difficile argomentare, quando al primo incrocio incustodito, si rischia un pericoloso frontale con un filorusso incazzato, con la bava alla bocca. Hai voglia di parlare di diritto, filosofia e storia, quando la risposta più educata è il sarcastico “certo certo… ha stato Putin”. E in men che non si dica, si viene declassati come leccapiedi dell’America, oppure, schiavo dell’Europa corrotta e tecnocratica. Per quanto l’impressione è che Trump, non foss’altro per il suo smaccato debole per Putin, goda se non di lode ma almeno di rispetto, per diversi fra loro.
Eppure, a ben guardare, bisognerebbe che questi filorussi, che nella stragrande maggioranza adorano Putin, il suo stile, il suo aplomb e, immagino, anche i suoi metodi, guardassero in maniera distaccata alla Storia. Almeno una volta nella vita.
Scoprirebbero ad esempio, che in Ucraina così come in molti paesi del ex blocco sovietico, la propaganda russofila è sempre partita da una posizione di vantaggio: cinquant’anni di presenza e dominio sovietico che avrebbero potuto e dovuto lasciare un’eredità di legami, di affetti, di sentire comune. E invece, dopo lo sgretolamento dell’Unione Sovietica, non è sembrato loro vero di recidere il cordone ombelicale con madre Russia, rea di non essere riuscita a costruire una rete e neppure relazioni profonde e amichevoli. Né in Ucraina, né nei Baltici, né in Polonia. Oltre che in molte delle società che si sono definitivamente staccate dalla “protezione” Mosca.
Un fallimento silenzioso per la Russia, che oggi si traduce in una scelta di campo netta, storicamente motivata, e difficilmente reversibile. Dovrebbero bastare solo questi pochi pensieri logici, per accettare la possibilità che, da quelle parti, molti continuano ad avere terrore dell’orso russo e che non sarebbero disposti a tornare – per niente al mondo – al loro triste passato da subordinati.
Tuttavia, visto il ritorno di fiamma dei filorussi, che domenica scorsa sono riusciti pure a conquistare Praga, con il ritorno alla vittoria di Andrej Babiš, qualche domanda andrebbe posta. Perché, ad esempio, la Russia di Putin, con tutto il suo pacchetto ideologico e culturale, riscuote oggi così tanto successo ?
L’impressione dominante è che molti occidentali provino un senso di vergogna, o forse di smarrimento, di fronte alla lenta e inesorabile decadenza dell’Impero d’Occidente. Non è una spiegazione, né tantomeno una giustificazione. Ma, come si dice, a pensar male si fa peccato… e talvolta ci si azzecca.
Forse, più che vergogna, dovremmo parlare di rabbia. Di livore per una rappresentanza che non arriva, per una voce che non trova spazio nella società del neocapitalismo sfrenato. Una frustrazione che cresce nel vuoto lasciato dalla politica incapace di ascoltare, di comprendere, di dare forma alle istanze di chi non si riconosce più nel racconto dominante.
Anche queste voci dissonanti, marginali, talvolta scomode, meritano attenzione. D’altronde, non si procede sempre per tentativi, inciampando e cercando, alla cieca, la strada giusta?
E così, l’alternativa è servita. Si guarda ostinatamente in quella direzione: verso quel mondo, lontano, ideale, di potenza, “di unità di produzione, di macchine automatiche e no anima”, fatto di asserzioni e scevro di qualsiasi contrappunto, nel quale tutto pare funzionare per il meglio. Perché dunque fare fatica a capire? Perché sobbarcarsi il peso della complessità di questo mondo incomprensibile? Mosca diventa rifugio. Capitale evocativa. Culla di rivoluzioni, letteratura e musica. Discendenza diretta dell’alternativa all’Occidente. Lenin, Trotsky, il mito della rivoluzione bolscevica, il sogno del comunismo applicato, la traslazione plastica delle teorie marxiste. Chi più di loro, dei russi, può ambire a spodestare il fallimento dell’occidente?
Difficile dire se chi si scaglia con livore contro chi prova a ragionare abbia davvero riflettuto su tutto questo. Magari usassero argomenti storici, culturali, politici per giustificare la propria fascinazione per il “metodo russo”. Sarebbe già un punto di partenza. Ma il nodo, probabilmente, è altrove: molti sembrano desiderare una vita semplificata, priva di contraddizioni, dove le risposte arrivano prima delle domande. E anche quando si prova a capire, l’impressione è che la partita sia già stata truccata.
Verrebbe da chiedere, uno per uno, a questi nuovi difensori del Cremlino, se sarebbero davvero disposti, qui e ora, a trasferirsi sotto giurisdizione russa. In un paese dove l’opposizione è di fatto inesistente, i diritti civili sistematicamente compressi, e la libertà ridotta ad un concetto astratto, spesso punito. Verrebbe da chiederlo a chi si infiamma di rabbia contro chi difende, con fatica e ostinazione, la democrazia occidentale, imperfetta e spesso pasticciona, oltre che occidentale.
Bisognerebbe riscoprire il valore del dubbio. La bellezza della complessità. Il piacere di pensare fuori dagli schemi. Out of the box. Né da un lato né dall’altro. In modo personale. Anche sbagliando. Anche rischiando. Accettando consigli. Studiando. Leggendo. Rivedendo teorie. Confrontandosi. Per poi esprimersi. Ma sempre con la propria testa.
Voltaire diceva: “Non sono d’accordo con te, ma darei la vita perché tu possa dire la tua.” Ecco, la vita, magari no. Non mi pare il caso. Ma un insulto, quello sì. Lo metterei a disposizione, se può servire a far riflettere, a far ragionare, a far rinsavire qualcuno.
















