La provocazione di Pelosi: arriva a Taiwan tra gli strali di Pechino (e di Washington)

La sua visita è un boomerang: costringe Washington a ribadire la contrarietà all'indipendenza di Taiwan e l'appoggio alla politica di "Una sola Cina".

di Enrico Oliari

Nonostante la contrarietà annunciata della Casa Bianca, la presidente della Camera Usa Nancy Pelosi si è recata a Taiwan, una visita che rischia di avviare un’escalation diplomatica con la Repubblica Popolare Cinese. In più occasioni da Pechino sono arrivati avvertimenti e minacce, persino di rappresaglie militari, per la visita di esponenti politici a Taiwan, ed oggi l’ambasciatore cinese presso le Nazioni Unite Zhang Jun ha protestato definendo la visita di Pelosi come “molto pericolosa, molto provocatoria”. La portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha annunciato conseguenze per l’atteggiamento “sconsiderato” della speaker del Congresso, e da più parti è stata minacciata la revisione delle relazioni bilaterali.
Nel tentativo di mettere una toppa da Washington è stato sottolineato che Pelosi si è mossa autonomamente, come previsto nelle sue prerogative, ma è stato anche ribadito il non riconoscimento dell’indipendenza di Taiwan come pure la condivisione della politica di “Una sola Cina”. La stessa Pelosi ha scritto su Twitter che il suo viaggio non rappresenta nessun cambiamento della politica Usa nei confronti di Taiwan e della Cina, ma poi ha aggiunto che la sua iniziativa vuole essere “una dimostrazione di sostegno alle democrazie minacciate”.
Bisogna infatti tenere presente che la Repubblica di Cina (Taipei) e la Repubblica Popolare Cinese (Pechino) si considerano a vicenda secessioniste dopo che nel 1949 fu sconfitto il Kuomintang e Taipei venne proclamata capitale di tutta la Cina, come pure il fatto che quando la Repubblica Popolare Cinese aderì all’Onu, nel 1971, le varie nazioni tolsero il riconoscimento a Taiwan, che oggi ha relazioni diplomatiche con 13 paesi, cioè Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Isole Marshall, Nauru, eSwatini, Santa Sede, Tuvalu, Saint Lucia, Saint Kittis e Nevis e Paraguay. Alcuni governi, tra cui quello degli Stati Uniti, hanno attivato a Taiwan un ufficio commerciale, una sorta di rappresentanza che tuttavia non ha le funzioni di una sede diplomatica.
Nel luglio 2019 il Libro Bianco stabilito al Congresso del Popolo della Repubblica Popolare Cinese ha riportato il proposito di annettere Taiwan anche a costo di intraprendere azioni di forza, e da allora Pechino ha mostrato i muscoli inviando navi ed aerei fino ai confini di Taiwan.
In questo quadro Taiwan, che ha come leader la presidente Tsai Ing-wen, ha aumentato per quest’anno il budget delle spese militari portandolo a 17,07 miliardi di dollari, denaro finalizzato all’acquisto di armi ed armamenti dagli Usa tra cui aerei da combattimento, missili teleguidati e droni, e gli Usa hanno aumentato le istallazioni missilistiche da difesa fra cui il dispiegamento delle batterie Patriot.
Viste le minacce cinesi, gli Usa hanno avvicinato a Formosa la portaerei Usa Regan con il suo gruppo navale, ma difficilmente Pechino ricorrerà alle armi, per quanto sconfinamenti nella zona di competenza esclusiva di Taiwan con aerei e navi avvengono quasi ogni settimana.
Da Mosca la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova ha puntato il dito affermando che “gli Usa vogliono destabilizzare il mondo. Negli ultimi decenni hanno avviato molte guerre, ma non ne hanno risolta una”.
Più che mettere in discussione le relazioni tra Usa e Cina, la visita di Pelosi rischia in realtà di trasformarsi in un boomerang, proprio perché costringe la Casa Bianca a ribadire la contrarietà all’indipendenza di Taiwan e l’appoggio alla politica di “Una sola Cina”.