La Rivolta degli Ombrelli

di Pietro Buffoni –

Wong JoshuaNegli ultimi giorni, a Hong Kong, molte migliaia di persone, per la maggior parte studenti, stanno manifestando e occupando le strade del centro, per chiedere di poter finalmente avere, da parte del governo cinese, il più basilare dei diritti di democrazia: elezioni libere a suffragio universale.
La rivolta ha in sé dei caratteri eccezionali, che solo in un luogo pieno di contraddizioni come Hong Kong è possibile trovare, e sta diventando, e sarà, uno degli eventi più importanti per la storia recente della Cina, non solo dal punto di vista politico, certamente centrale, ma anche, e forse soprattutto, dal punto di vista sociale e culturale.
Il sistema politico di Hong Kong è differente da quello del resto della Cina, a seguito di una riforma, voluta da Deng Xiaoping nel 1984, che inaugurò ciò che fu chiamato “Una Cina, due sistemi”, ovvero la coesistenza del regime comunista dittatoriale, in Cina, e di un sistema economico e legislativo più liberale, ad Hong Kong, colonia britannica. L’accordo tra Cina e Gran Bretagna portò alla definizione della Basic Law, base dell’attuale sistema politico, entrata in vigore al momento della restituzione della colonia alla Cina, nel 1997.
Secondo questa mini-costituzione, il sistema socialista cinese non si dovrà applicare ad Hong Kong per 50 anni dalla sua restituzione alla Cina, e la città è stata annessa con lo status di Special Administrative Region (SAR), godendo così di un’autonomia speciale: non soltanto è restato in vigore il sistema economico capitalista, ma in più essa ha un proprio Chief Executive (Primo ministro), una propria assemblea legislativa, e un sistema giuridico autonomo.
Tuttavia, i cittadini di Hong Kong, fino alle ultime elezioni, hanno potuto eleggere solamente i rappresentanti dell’assemblea legislativa, mentre il capo dell’esecutivo veniva eletto da un comitato elettorale di 1200 persone, vicine a Pechino, e nominato dal presidente del Partito Comunista Cinese.
Il fatto che a Hong Kong sia concessa un’autonomia politica, seppur limitata, ai cittadini, insieme con il suo particolare status economico, rende la SAR una sorta di laboratorio politico e sociale sul quale il Partito può sperimentare forme diverse di amministrazione, in vista di un’eventuale, graduale, apertura di Pechino alla democratizzazione e liberalizzazione del sistema.
Anche per questo Hong Kong non è nuova alle proteste, anzi, nella SAR il governo cinese ha sempre concesso maggiori libertà di manifestazione rispetto a quanto permesso nella Mainland, forse anche per fornire una valvola di sfogo alle rimostranze pro-democratiche verso le quali il Partito Comunista è da sempre fortemente, se non violentemente, avverso. Tuttavia le manifestazioni sono sempre stato controllate, quasi pilotate, e sempre rigorosamente autorizzate dal governo, in occasione di determinate ricorrenze (una fra tutte, il 4 giugno, anniversario della strage di Piazza Tienanmen).
Questa volta però è diverso.
Questa volta, le proteste degli studenti non sono autorizzate, non sono concesse dal governo e tanto meno sono pilotate o controllate. Da giorni decine di migliaia di persone occupano le strade di Hong Kong contro il volere del governo e delle forze dell’ordine.
Com’è potuto accadere che in un luogo all’apparenza così perfettamente e rigorosamente amministrato, un tale numero di persone abbia potuto, tutto d’un tratto, scendere per le strade e bloccare la frenetica attività di uno dei più importanti poli economici e finanziari di tutta la Cina?
E come può una rivolta di questo genere avere un impatto significativo sul sistema politico o un’influenza sul contesto culturale e sociale di Hong Kong?
Tutto è cominciato da quando, all’inizio del 2013, un professore di giurisprudenza della Hong Kong University, Benny Tai, incoraggiò, con un suo articolo, un atto di disobbedienza civile da parte della popolazione di Hong Kong: l’occupazione della zona centrale di Hong Kong Island, al fine di mettere pressione sul governo e ottenere libere elezioni per il 2017.
Da allora, la campagna pacifica pro-democrazia si è diffusa enormemente e ha preso il nome di “Occupy Central” (sulla scia del movimento “Occupy Wall Street”, nato due anni prima).
Di recente, il governo cinese ha dovuto necessariamente affrontare le richieste e le critiche che gli venivano mosse dal movimento pro-democratico, e ha risposto concedendo il suffragio universale per le elezioni dell’esecutivo del 2017. Tuttavia, i candidati che potranno essere votati alle prossime elezioni, saranno ancora scelti dallo stesso comitato elettorale dei 1200.
Questo rifiuto di liberalizzare le candidature alla carica di Chief Executive è stato la scintilla che ha fatto scoppiare la protesta: migliaia di persone, non soltanto legate al movimento di Occupy Central, hanno occupato il centro della città, a partire da Admiralty, sede del governo, e da lì, sull’onda dell’entusiasmo, le zone occupate si sono moltiplicate e i manifestanti si sono spinti da Hong Kong Island fino a qualche chilometro dentro Kowloon, la penisola che fronteggia Central, fino ad arrivare a Mong Kok.
La sera del primo giorno di protesta la polizia ha cominciato a lanciare lacrimogeni contro le persone che stavano attuando un sit-in pacifico, nel tentativo di disperdere la folla.
Quest’azione violenta e inutile attuata dalle forze dell’ordine non ha però sortito effetti evidenti, se non quello di richiamare su Hong Kong e sulla protesta l’attenzione internazionale. Da quella prima sera, gli studenti universitari e tutte le persone coinvolte nella protesta hanno deciso di prolungare indefinitamente l’occupazione delle vie della città, chiedendo, oltre alle concessioni democratiche, le dimissioni di Chung Ying Leung, attuale capo dell’esecutivo.
Ho seguito attentamente l’evolversi della situazione, principalmente per due motivi.
Innanzitutto, ho vissuto un anno a Hong Kong, nel 2010-2011, frequentando la quarta liceo all’estero. Durante questo periodo ho conosciuto molti ragazzi della mia età, miei compagni di scuola. Proprio questi sono ora studenti universitari e proprio loro sono i protagonisti di ciò che sta accadendo.
Quando il 28 settembre ho acceso il computer e sono entrato sulla mia pagina di face book l’ho trovata piena di fiocchi gialli, uno dei simboli della protesta pro-democratica, e di messaggi in cinese e in inglese con i quali questi ragazzi, dei miei amici, si accordavano su dove e quando incontrarsi per proseguire l’occupazione.
Non ho potuto fare a meno di interessarmi a ciò che essi stavano portando avanti, e mi sono ritrovato molto coinvolto, deciso a supportare, in qualche modo, le loro rivendicazioni.
In secondo luogo, quello che ho potuto vedere, leggere e sentire di questa protesta mi ha da un lato sbalordito, dall’altro affascinato.
Mai, nella mia breve esperienza, ho avuto modo di vedere una manifestazione come questa.
Le modalità con cui quei ragazzi stanno combattendo la loro battaglia sono sorprendenti, uniche, e meritano di essere diffuse e rese note.
I motivi per cui questa protesta è unica sono molti, e cercherò di metterne in evidenza alcuni.
Per prima cosa, è una protesta condotta da giovani e universitari. Va bene, fin qui nulla di nuovo, ne è pieno il mondo. La cosa che secondo me è unica sono i motivi per cui siano proprio questi giovani a condurre le proteste.
Mi ha stupito moltissimo vedere come quei miei compagni di classe, che fino a tre anni fa erano così inglobati in un sistema scolastico estremamente competitivo e “chiuso”, che si stupivano nel vedere un loro coetaneo europeo che usciva la sera nel quartiere dei locali (Lan Quai Fong), da loro considerato un posto troppo trasgressivo, che non esitavano a definire un “cattivo ragazzo” qualunque loro coetaneo che a scuola girava con l’uniforme disordinata, o con un taglio di capelli strano, siano ora invece in strada a protestare contro il sistema politico di Hong Kong.
Credo che uno dei motivi per cui proprio questi ragazzi, proprio loro, siano ora a occupare le strade di Hong Kong, sia che essi non hanno nulla a che vedere con il sistema politico che gli è ora imposto.
Non ne conoscono le origini storiche, o meglio, le conoscono solo tramite i libri di scuola: per loro il periodo coloniale inglese è solo storia: non ne hanno alcuna conoscenza diretta, né vi sono in alcun modo legati.
Allo stesso tempo, però, non sono nemmeno cinesi, anzi, guai a chiamarli così, la cosa li infastidisce. Le loro famiglie (tutte o quasi immigrate dalla Cina) sono ormai da più di una generazione a Hong Kong, e loro non hanno probabilmente mai neanche vissuto nella Mainland. Loro sono Honkongers, punto e basta.
E come puoi dire a dei giovani cittadini di Hong Kong, ai “primi” cittadini di Hong Kong, che il loro sistema è libero e autonomo, ma che il loro diritto al voto dipende da un accordo siglato venticinque anni fa tra due stati “stranieri”, la Cina e la Gran Bretagna?!
Nel momento in cui questi nuovi cittadini si sono resi conto di essere, per l’appunto, cittadini, si sono ritrovati di fronte a questo assurdo, a questa situazione senza senso.
Non può non sorprendere chiunque in questi giorni abbia visto qualche foto dei fiumi di persone che camminano per le vie di Hong Kong, il fatto che tutte le vetrine dei negozi siano intatte, che tutte le auto parcheggiate siano ancora sulle loro quattro ruote (e non ribaltate e magari in fiamme) che non ci sia neanche un filo di spazzatura lungo le strade, che nessuno stia mai lanciando oggetti contro la polizia… Addirittura, tra striscioni e ombrelli, si possono notare dei cartelli, apposti sulle barriere costruite per le strade e sui negozi, che chiedono scusa per il disturbo arrecato, assicurando però che è stato fatto per perseguire una causa sentita e giusta.
Ma che protesta è mai questa? Nessun ferito, nessuna rissa, nessun vandalismo?!
Sfido chiunque a trovare una manifestazione giovanile di più di 50000 persone in una città italiana, che non abbia lasciato dietro di sé una scia, più o meno grande, di devastazione (dai muri imbrattati, alle auto carbonizzate, alle teste fracassate), o almeno di spazzatura.
Trovo sia fantastico vedere decine di migliaia di persone che protestano in strada, e lo fanno semplicemente essendo lì. Non cercano di far vedere la loro forza, mostrare i muscoli, né quanto siano pericolosi o agguerriti, ma vogliono solo mostrare a tutti la loro presenza, come a dire: “Noi siamo qui, viviamo in questa città, non vogliamo distruggerla. Non siamo mica scemi che danneggiamo il posto stesso in cui viviamo. Noi, semplicemente, siamo qui!”.
Un appello del genere, posto in questi termini, non può essere ignorato, non può essere fatto passare come una manifestazione violenta guidata da un gruppo di delinquenti. Le autorità non possono reprimere, perché non c’è nulla da reprimere. L’unica cosa che possono fare è prendere atto di un’evidenza: il fatto che a Hong Kong vivono tanti, ma tanti, ma tanti hongkongers! Voglio vedere come si possa ignorarli, ora…
Un’altra cosa che richiama l’attenzione all’istante, non appena si dia un’occhiata a una delle tante foto delle manifestazioni: una marea di ombrellini.
Dal mio punto di vista, questa è una delle cose più esilaranti di questa rivolta soft.
Il simbolo della protesta… un ombrello!?!? Ma perché?
Secondo me è fantastico che il simbolo di un’azione di contestazione contro il governo sia un ombrello.
Mi spiego. Ai manifestanti non serve un simbolo di forza o di violenza, un passamontagna, un manganello, un pugno chiuso, una braccio teso vigorosamente… a questi manifestanti serve solo coprirsi dal sole mentre stanno per ore in strada a occupare. Si mettono comodi, diciamo. Non devono combattere, aggredire, assediare nulla. Devono rimanere lì, devono riappropriarsi della propria città. Non con la violenza, anzi… stando comodi, il più possibile!
L’unicità di ciò che sta accadendo è dovuta alla civiltà di chi sta portando avanti queste azioni e al modo in cui tutti partecipano.
Sul web si trovano foto di studentesse che fanno i compiti, sedute in strada; di ragazzi e ragazze, volontari, che hanno organizzato la raccolta differenziata e che passano tra la folla a raccogliere la spazzatura; di persone che hanno allestito stand in cui si fornisce assistenza medica di prima necessità, o punti ristoro, con qualche snack e bevanda fresca.
Ma non solo loro.
Mi è capitato di leggere su facebook un comunicato della Hong Kong University. Questa, dopo aver scoraggiato chiunque a compiere azioni aggressive e, sia ben chiaro, non prendendo le parti di nessuno, offre ai manifestanti: assistenza medica in caso di necessità, eventuale assistenza legale per chi fosse fermato dalla polizia, una linea telefonica 24 ore su 24 per aiutare chi avesse qualche problema nell’ambito dell’occupazione, la disponibilità di volontari a prestare supporto psicologico ed emozionale a studenti ed insegnanti in difficoltà…
Quale può essere il futuro di questa manifestazione, quali possono essere i risultati, se mai il governo cinese cederà, questo ora non si può sapere. Il governo risponde fermamente che non cambierà la sua decisione. Ma allora tutto questo è inutile?
Gli hongkongers hanno attirato l’attenzione, si sono fatti vedere, anche se fino ad ora erano stati più o meno in silenzio. E l’hanno fatto semplicemente stando nella loro città, venendo fuori dalle case, fuori dai grattacieli.
Credo che queste proteste abbiano mostrato un nuovo modo di protestare, che batte tutti gli altri. Batte la lotta, la violenza armata, batte gli scioperi, batte le grida e gli slogan triti e ritriti. Non tanto il fatto di scendere in strada, quanto per il modo in cui la gente ci è rimasta.
Il supporto per gli hongkongers si è diffuso, eccome, ben al di là delle amicizie di facebook.
E non è un supporto politico, non si tratta di destra e sinistra, né di capitalismo o socialismo. È il supporto dato a una manifestazione umana, a una necessità civica di nuovi cittadini, a una speranza di cambiamento. Una cosa molto genuina, molto spontanea.
Una mia ex-compagna di scuola, a Hong Kong, ha scritto su facebook:
“Give us what we deserve.
We don’t know who the hell are you or why the hell would you have such a power to give or deprive. We don’t know you and we don’t know where you came from.
But we can’t accept this as our fate.
This ain’t no fun, this ain’t easy at all.
But it’s the only way, because there ain’t no future without democracy”.

Nella foto: il leader della protesta degli studenti Joshua Wong