di Paolo Falconio * –
La rappresentazione della Russia contemporanea come emanazione diretta della volontà di Vladimir Putin costituisce un approccio interpretativo limitato e parziale. Una simile prospettiva trascura le radici profonde della cultura e dell’identità russa, inscrivendosi in una tendenza occidentale alla semplificazione e quindi alla povertà e all’immediatezza analitica.
Più che plasmare la Russia, Putin ne incarna le tensioni storiche e spirituali: egli appare come il prodotto, non il demiurgo, di una traiettoria millenaria. La volontà di potenza oggi attribuita al Cremlino non rappresenta dunque una deviazione personale, ma la continuazione di una costante storica che ha attraversato l’Impero zarista e l’Unione Sovietica. Tale costante si manifesta come tensione verso una “centralità salvifica”, in cui la dimensione politica si intreccia con quella religiosa e messianica. Putin quindi appare come l’epifenomeno di una “coscienza storica collettiva” che si esprime attraverso forme diverse, cioè zarismo, bolscevismo, federalismo autoritario, ma che conserva un nucleo simbolico costante: appunto la missione salvifica della Russia. È una impostazione che richiama la lezione di Fernand Braudel e della scuola delle Annales: la storia non come sequenza di eventi, ma come stratificazione di tempi lunghi, strutture mentali e orizzonti simbolici.
Emblematica, in tal senso, risulta la riflessione di Henry Kissinger, il quale affermava: “L’URSS non esiste più, ma la Russia sì”. Tale osservazione sottolinea la persistenza di una coscienza nazionale e di una vocazione storica che trascendono i mutamenti istituzionali e ideologici.
La dimensione imperiale russa non si esaurisce quindi in una logica di potenza militare o geopolitica. Essa si radica in una concezione escatologica e messianica della storia, secondo cui la Russia si considera depositaria di una missione salvifica universale. L’idea della “Terza Roma”, dopo Roma e Costantinopoli, non rappresenta un semplice costrutto retorico, ma costituisce un elemento fondante della coscienza storica collettiva. L’antico detto «non ci sarà una quarta Roma» sintetizza la percezione di una continuità spirituale e di una responsabilità universale.
Durante il periodo sovietico, tale missione trovò espressione nel progetto del socialismo mondiale; nella contemporaneità, essa si riformula in termini religiosi e identitari, ma conserva le stesse radici profonde. Questa vocazione è testimoniata dalla letteratura e dal pensiero filosofico russo, nei quali si riflette la tensione tra fede, sofferenza e destino nazionale.
Nei romanzi di Fëdor Dostoevskij, in particolare I Demoni (1872) e Il diario di uno scrittore (1873–1881), emerge l’idea di una Russia chiamata a soffrire per redimere l’umanità attraverso la fede. Analogamente, Lev Tolstoj e Nikolaj Berdjaev, sebbene da prospettive differenti, riflettono sulla tensione morale e spirituale che definisce il destino russo (La confessione, 1882; Il destino della Russia, 1918).
Sul piano teologico, autori come Vladimir Solov’ëv (La Russia e la Chiesa universale, 1889) e Pavel Florenskij (La colonna e il fondamento della verità, 1914) offrono interpretazioni in cui l’elemento religioso assume un valore politico e comunitario. In continuità con tali riflessioni, la dottrina del Russkij Mir (“Mondo Russo”), promossa dal Patriarcato di Mosca, rappresenta oggi la traduzione ideologica di questa sintesi tra Chiesa e Stato.
La visione escatologica della “Madre Russia” come custode della vera fede cristiana costituisce, in questo senso, una costante della cultura nazionale: il ritorno di Cristo, secondo tale narrazione, avverrà in Russia, la quale si percepisce come centro spirituale della salvezza universale. Lo Stato e la Chiesa ortodossa si configurano così come un unicum teologico-politico destinato alla redenzione dell’umanità. Tale visione non è semplice retorica religiosa, ma una struttura portante della mentalità collettiva russa: essa giustifica, agli occhi dei russi stessi, la centralità geopolitica del Paese e la sua presunta funzione redentrice nel mondo.
La comprensione della Russia richiede pertanto un approccio interdisciplinare, capace di coniugare storia, religione, filosofia e geopolitica. Solo riconoscendo la profondità e la continuità di questa tradizione spirituale è possibile interpretare in modo adeguato le dinamiche contemporanee del potere russo.
Ridurre la Russia alla figura di Putin equivale a negare la sua complessità storica: il presidente russo rappresenta la manifestazione di una identità collettiva e di una missione storica che precedono la sua stessa esistenza politica. Tutto quanto sopra non vuol dire che la dirigenza russa non usi strumentalmente simboli e miti della tradizione per giustificare la propria azione, ma lo fa appoggiandosi a un sentire collettivo reale, non inventato. Comprendere queste dinamiche ci permette anche di capire perché questa Russia, nonostante la guerra in Ucraina, eserciti una notevole fascinazione a livello popolare su un’Europa smarrita e secolarizzata. Laddove l’occidente moderno è dominato dalla secolarizzazione e dal primato dell’individuo, la Russia rimane orientata a una teleologia collettiva, a un fine ultimo della storia in cui la nazione ha un ruolo provvidenziale.
In conclusione, la Russia si configura così come una civiltà autonoma, europea nelle radici ma distinta nei suoi presupposti spirituali, in cui Stato e Chiesa si fondono in una visione teleologica del tempo storico orientata alla salvezza finale. Per questo suo destino che appare ai russi manifesto, la Russia non può uscire dai libri di Storia e le tante analisi Geopolitiche dovrebbero tenere conto che tra i fattori di potenza vi è la percezione che di sé ha un popolo.
* Miembro del Consejo Rector de Honor y conferenziere en la Sociedad de Estudios Internacionales (SEI).
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