
di Paolo Falconio * –
Mentre si rincorrono voci di un nuovo attacco israeliano in autunno ai danno dell’Iran, risulta evidente ai commentatori che una vittoria cinetica di Israele contro una Nazione di circa 1.400.000 km quadrati e 90 milioni di persone con un’età media giovanissima, è una sfida di scala troppo grande per Israele che ha una popolazione di circa 8 milioni di persone. Questo fa sì che il progetto israeliano di innescare un cambio di regime in Iran, condiviso anche dagli apparati statunitensi, in particolare la CIA, resta uno degli obiettivi principali di Tel Aviv; ciò considerando che è diffuso in Iran un sentimento politico favorevole alla distruzione dello Stato di Israele e che il bombardamento statunitense non ha compromesso in maniera significativa le capacità nucleari iraniane. Non che l’Iran stesse sviluppando realmente un’arma atomica (questa è la narrazione per il grande pubblico, ma tutte le intelligence, compresa quella USA, si veda Annual Threat Assessment, dicono che avesse rinunciato alla sua costruzione), ma la cessazione del programma nucleare civile sarebbe uno smacco per le ambizioni di potenza di Teheran che avrebbe ripercussioni importanti anche sui suoi proxy, che sono la vera minaccia attuale ad Israele (il nucleare è una minaccia potenziale). L’Iran ne uscirebbe umiliato.
Infatti l’Iran degli ayatollah, ormai da tempo in mano ai militari, è divenuto il paladino della causa palestinese strumentalizzandola per i propri fini. La galassia delle milizie jihadiste palestinesi sono tentacoli di una sola testa che è costituita dall’ Iran. Hanno una loro agenda, ma è l’Iran ad armarli, addestrarli e ne influenza comunque l’ azione. Tuttavia il crollo del regime attuale non è detto che produca i risultati sperati, perché resta incerto che tipo di governo potrebbe emergere da un eventuale collasso della Repubblica Islamica. Non posso entrare troppo nello specifico, ma ad oggi in Iran esiste uno Stato nello Stato costituito dai Pasdaran, che non sono solo una forza militare ma anche industriale, anzi costituiscono l’ossatura del vero apparato industriale, il quale si è formato modellandosi e adattandosi alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Un cambio di regime li vedrebbe come i più probabili successori, magari con un vestito buono, ma rimarrebbero gli stessi e sono i Pasdaran a tenere i fili dei proxy iraniani. La realtà è che l’Iran non è un’entità omogenea, ma è una realtà della storia con una vocazione imperiale: è un’antica civiltà, erede di 2.500 anni di storia e cultura, composta da etnie diverse (principalmente persiani, azeri, curdi, luri, e poi baluci turkmeni, arabi e altre minoranze) e tradizionalmente antagonista dell’Occidente. Qualunque cambiamento interno avverrebbe attraverso una traiettoria profondamente persiana, piuttosto che con un ritorno al filo occidentalismo del tempo dello scià, una scelta che in fondo ne decretò anche la fine.
La storia non si ripete, ma ammonisce ed è utile ricordare che le forze endogene dell’Iran si incarnarono in Mohammed Mossadeq. Presidente iraniano democraticamente eletto di matrice nazionalista, subito deposto dopo aver nazionalizzato l’industria petrolifera, dal colpo di Stato del 1953 ad opera dello scià di Persia Mohammed Reza Palavi. Il quale da carnefice divenne vittima della rivoluzione Khomeinista. Di Mossadeq rimasero famose le sue parole che forse, meglio di tanti ragionamenti, indicano il carattere iraniano: “Non intendo presentare alcun appello contro una condanna a morte e non accetterò nessun perdono, anche se lo scià deciderà di accordarmelo. Il perdono è per i traditori ed io sono invece la vittima di un intervento straniero”.
Il regime degli ayatollah è in difficoltà, ma non è un morto che cammina e dobbiamo fare lo sforzo di comprendere che parliamo di un impero che ha 25 secoli di storia e altrettanti prima della sua fondazione. I bombardamenti israeliani e il taglio delle teste dei vertici dei Pasdaran non ha fatto altro che rinsaldare un popolo attorno ai suoi leaders non perché li sostengano intimamente, ma perché da popolo imperiale non accettano ingerenze. Tantomeno bombardamenti. Poi gli israeliani ci hanno messo del loro, con volantini e messaggi che incitavano alla ribellione in inglese. Gli iraniani parlano il farsi (parlato anche in Tagikistan e Uzbekistan e in parte in Afghanistan ), che è il persiano antico nella sua fase moderna. Chi non aveva il kalashnikov se lo è andato a comprare.
Inoltre lo sciismo ha delle particolarità nella sua stessa matrice storica e non va confuso con la tradizione sunnita degli altri popoli arabi.
Questa matrice storica incide anche in relazione alla decapitazione operata dal Mossad dei vertici iraniani (piccola indiscrezione: i religiosi non sono stati toccati per espresso ordine della destra religiosa israeliana, non per altre ragioni). È utile a tal fine introdurre l’Ashura che non solo è la più importante festività del mondo sciita, ma ne permea il modello etico in termini di resilienza.
Con l’‘Ashura, gli sciiti commemorano l’anniversario della morte del loro terzo Imam, Hussein Ibn ‘Alì, nella battaglia di Karbala (nell’attuale Iraq) nell’anno 680. Hussein, figlio del califfo ‘Alì e di Fatima, la figlia del Profeta Maometto – rappresenta per gli sciiti una figura persino più importante e più ricordata di suo padre, il primo Imam. Dopo la rinuncia del fratello Hassan – il secondo Imam sciita, ad ogni aspirazione al ruolo di califfo, i seguaci di ‘Alì (“Sciiti” o “Alidi”) videro in Hussein il legittimo pretendente al titolo. L’inaspettata ascesa al califfato di Yazid ibn Mu’awiya, indusse Hussein ad avventurarsi verso la città di Kufa per organizzare una rivolta contro Yazid e la sua dinastia, gli Omayyadi. L’insurrezione fu repressa, ma Hussein, determinato a non ritirarsi, combatté fino alla morte assieme a 72 suoi seguaci.
La morte tragica e dolorosa di Hussein, insieme alla sua famiglia e a tutti i suoi eredi maschi (tranne il neonato ‘Alì, futuro quarto Imam ‘Alì Ibn Hussein), consacra la rottura definitiva dei due grandi filoni dell’Islam, quello sunnita e quello sciita. Da quel momento coloro che riconoscono la legittimità del califfo Yazid vengono chiamati sunniti, mentre chi predilige il legame di sangue con la famiglia di Maometto, Ahl al-Bayt, e considera Hussein come il legittimo erede del Profeta, viene identificato come sciita. Insomma l’Ashura è una dottrina di resistenza morale e religiosa. Per gli sciiti Hussein non ha combattuto solo per sé e per i suoi interessi politici e dinastici, ma ha sacrificato la sua vita per una giusta causa, per la salvezza dell’umanità e per la giustizia. La storia di Hussein è diventata un mito fondativo della fede e dell’identità sciita. In questo senso la decapitazione operata dal Mossad è si un duro colpo alle capacità operative dell’Iran, ma non ne scalfisce il consenso proprio perché quelle morti sono lette secondo la morale e l’insegnamento dell’Ashura. Per darvi l’idea della profondità del fenomeno, l’appello al martirio di Hussein fu fatto per invocare la resistenza nei confronti del regime dello scià, e in seguito per mobilitare le masse contro il l’invasione da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. In Libano, l’esempio di Hussein fu citato per stimolare la resistenza contro le truppe israeliane che negli anni Ottanta avevano invaso il sud del paese. In tempi recenti, la determinazione di Hussein ha motivato i soldati e i miliziani sciiti nella lotta contro l’Isis.
Ogni trasformazione profonda innesca forze latenti nella cultura di un popolo. Quando il contenitore istituzionale crolla, ciò che emerge non è un vuoto, ma qualcosa di antico, magari sopito, ma mai estinto.
In uno scenario dove la teocrazia, in ipotesi, lascerebbe il posto ad un nuovo soggetto di governo che potrebbe paradossalmente rivitalizzare la rivendicazione della primogenitura di un principio creatore unico (identificato originariamente nello zoroastrismo) e contemporaneamente il ritorno alle radici dell’Impero Persiano, che neppure la teocrazia più opprimente è riuscita a fare dimenticare. A tal proposito agli osservatori non è sfuggito che dopo i bombardamenti a Teheran campeggiavano enormi cartelloni con l’effige di Ciro I e di figure della mitologia persiana. Un fatto non da poco considerando l’oscurantismo degli ayatollah e se si considera che la repressione più dura del regime nel 2022 avvenne perché il popolo stava organizzando il pellegrinaggio (vietato dagli ayatollah) alla tomba di Dario II. Le donne, brutalmente menomate, indossavano gioielli zoroastriani (la antica religione dell’Impero). Persino la corrente sciita trova la sua genesi nella necessità di far convivere l’Impero con l’Islam. In sostanza Israele potrebbe generare le condizioni per la restaurazione di un avversario molto più pericoloso perché culturalmente raffinato, con profonde radici storiche, una idea imperiale di sé mai sopita e che potrebbe anche godere di simpatie oltreoceano, perché meno oscurantista ed estremista.
Gli esempi nella storia non mancano a partire dalla Turchia post-ottomana: la rivoluzione kemalista abolì il califfato e trasformò un impero islamico teocratico in una repubblica laica e modernizzatrice. Ma la tensione tra laicismo e identità islamica non si è mai davvero sopita e oggi rinasce sotto nuove forme, proprio come potrebbe accadere in Iran.
Ma questo ritorno all’identità culturale imperiale dopo la trasformazione o il crollo di uno Stato si può ravvisare anche in Cina o nella stessa Russia. Tutto questo per dire che non è un’ipotesi di scuola.
Si tratta di un popolo che sta al mondo da 5mila anni e anche se il loro territorio venisse spianato dalle bombe americane, né Israele, né gli Stati Uniti hanno la volontà di mettere gli scarponi in Iran, una decisione più che saggia perché l’Iran ha una popolazione di 90 milioni di persone con un’età media di 34 anni. Tradotto farebbero una guerra senza quartiere. Questo vuol dire che forse siamo di fronte ad una battaglia esistenziale per il regime, ma non per l’Iran. Provare a smembrarlo con operazioni segrete, facendo leva sulla componente azera, è un’operazione a tavolino che dimostra la nostra incapacità di capire l’altro. In primis è l’Iran ad esercitare una forte influenza culturale in Azerbaijan e non il contrario. In secondo luogo gli azeri occupano assieme ai Persiani la cuspide del potere, tanto che lo stesso Khamenei è per metà azero.
Detto ciò, ammesso che si riesca a provocare un cambio di regime (e ben venga la caduta di un regime oscurantista), non mi illuderei troppo sul dopo, soprattutto sul lungo periodo, perché le ceneri non dureranno per sempre e dobbiamo avere la consapevolezza che siamo di fronte ad un popolo (non solo il clero) con profonde radici culturali imperiali e che non vuole essere occidente. Nella migliore delle ipotesi sarà una democrazia, ma rimarrà la patria dello sciismo e conterrà sempre il germe dell’impero. Il giorno in cui l’Iran eleggerà davvero un suo presidente, cosa ci fa credere che gli interessi non saranno i medesimi di quelli attuali? In definitiva per disinnescare definitivamente la minaccia iraniana bisognerebbe spostarlo altrove nelle cartine geografiche: in geopolitica la geografia detta le regole e i popoli imperiali vivono di potenza, non di aperitivi o serie televisive.
(Tutti i diritti sono riservati).
* Member of the Consejo Rector de Honor and lecturer at the Sociedad de Estudios Internacionales (SEI) di Madrid.











