Le teorie della guerra giusta e della pace negativa

di Giovanni Caprara –

soldato fucileLa crescita dell’interdipendenza fra Stati è responsabile della trasformazione del diritto internazionale. Sostanzialmente, l’interdipendenza si discosta dalla cooperazione in quanto non è volontaria, ma genera dalla necessità di doversi adattare per una coabitazione civile e pacifica. Più esattamente, gli equilibri di potenza erano sostenuti dall’autosufficienza, ma allo stato attuale nessuno può prescindere dalle risorse naturali, dalle implementazioni tecnologiche e dalle dinamiche economiche globali.
Di fatto, tutte le Nazioni sono parte di un insieme complesso di interconnessioni dove vige il principio di comunità che sostituisce l’individualità e l’autosufficienza, creando una interdipendenza circolare, dove il primo punto interagisce con quello immediatamente successivo per poi proseguire con i seguenti, sino a tornare a quello iniziale dopo aver percorso tutta la circonferenza del cerchio. Tale esempio, suggerirebbe una dipendenza fra i vari punti, dove potrebbero verificarsi episodi di sfruttamento, prevaricazione od azioni unilaterali, ma è l’interdipendenza stessa a regolare i movimenti comuni, i quali sono sottoposti all’etica della
Comunità Internazionale nel rispetto dei diritti e della sicurezza globale.
L’ordinamento internazionale è in linea con l’ordine e la pace, ma questo concetto non è sostenuto in egual modo dai Membri comunitari. Il valore della conciliazione non è assunto come unica mera assenza della guerra, ma citando Thomas Hobbes, il concetto di pace è negativo, in quanto obliato dall’assenza di forza, e secondo Kelsen, il diritto stesso ricorre alla forza pubblica per garantire il rispetto delle leggi. Questo vuol significare che lo stato giuridico di pace è ristretto all’uso illegittimo della forza, giustificandola quando necessaria.
La definizione di “pace” non è ben definibile, infatti concerne una condizione desiderabile associata alla vita, pertanto l’oggetto di approfondimento è il concetto ed il contenuto della parola pace: essa è il rifiuto della violenza fisica, dell’applicazione della giustizia sommaria e dell’uso non regolato della forza. Consegue che quest’ultima deve essere legalizzata dalla sicurezza pubblica ed avallata dalle autorità, pertanto la pace è quella riportata nei testi giuridici, infatti il concetto di pace negativa è proporzionale al valore ed all’applicazione della sicurezza. Il dualismo “pace e sicurezza”, sono ben definiti nella Carta delle Nazioni Unite, dove il mantenimento di questa condizione è talmente fondamentale da divenire conclusivo nell’interpretazione del dualismo.
La pace è determinata dalla conclusione di una guerra, in questo caso l’obiettivo della comunità diventa la sua conservazione, ricercando ed eliminando tutti i fattori scatenanti il conflitto appena cessato, restituendo così la sicurezza ai popoli: in questo caso, pace e sicurezza si amalgamano fra loro sino ad essere un unicum. Nella società multipolare e globalizzata, sembra assurgere un nuovo ordine mondiale, nel quale le Nazioni Unite hanno già dato luogo ad un confronto; il primo passo è stato proprio nell’espressione del mantenimento della pace e della sicurezza. Questa condizione è da sempre interpretata come un non uso della forza, ma più correttamente il dualismo deve essere riconducibile al rispetto dei diritti dell’uomo, aspetto basilare per i rapporti amichevoli fra gli Stati, un fattore che deve primeggiare sugli altri, a costo di esigere una trasformazione della sicurezza così come concepita dall’ONU, mutandola pertanto, nel rigido rispetto della giustizia e del diritto
internazionale: in tal modo la pace potrà essere giusta e non solo apparente. Affinché questo concetto possa essere applicato, parrebbe necessario rendere giusti anche i mezzi necessari a difenderla e mantenerla, fra questi anche con un conflitto. Ne consegue che quest’ultima assumerebbe la connotazione di guerra giusta. Una tesi da rigettare, ma non nella sua completezza: non è possibile rifiutare la teoria della guerra giusta se in questa è compresa quella di autodifesa. Detto principio può, probabilmente, non essere sostenuto da tutte le categorie, ma nell’autodifesa è contemplata la resistenza del popolo aggredito, il quale tenderebbe al recupero dei suoi diritti, della libertà e della sovranità della propria Nazione. L’autodeterminazione del popolo è l’effetto che ridefinisce la guerra di autodifesa rendendola giusta. Quando si tratta di contrastare una violazione della libertà e dei diritti, l’Autorità è legittimata nell’intervenire al ristabilimento delle condizioni iniziali, deliberando ed attuando
tutte le operazioni belliche necessarie, ma senza poi violare a sua volta i diritti del nemico.
Pertanto, siccome una guerra implica la perdita di vite umane dell’avversario, contravvenendo al principio fondamentale dei diritti, la guerra giusta sarebbe un ossimoro, perciò le operazioni belliche dovrebbero essere ridotte alle installazioni militari, salvaguardando quelle civili. La giustificazione alla guerra origina dalla necessità di doversi difendere da un aggressore, pertanto operazioni militari volte alla protezione del popolo, dei beni statali e del territorio dovrebbe essere giusta per natura, e laddove non intervengano le forze regolari, il loro posto sarebbe preso ineluttabilmente dai partigiani o dagli oppositori del governo che ha permesso l’invasione del Paese. L’autodifesa, dovrà poi essere regolamentata, infatti deve limitarsi alla difesa della vita degli aggrediti, ma non esacerbare in operazioni punitive nei confronti del nemico. Concetto valido solo se è legittimato da una minaccia certa e non presunta. L’aberrazione di questo contesto è nella necessità di tutelare lo Stato con l’ausilio di sistemi d’arma che siano efficienti e superiori ai probabili nemici; ne consegue la possibilità di esercitare azioni tese alla diminuzione della potenza dei confinanti che, in casi estremi, potrebbero sviluppare un attacco preventivo. Hobbes lo ritiene giusto, in quanto tende a garantire la libertà ed i diritti del proprio popolo, ma altri come Wolff e Vattel lo definiscono come illegittimo, e giustificano la loro tesi con l’affermazione che il temere di essere attaccati non è sufficiente a trasformarsi in aggressori. Sostanzialmente, l’assunto è corretto, ma annulla il fondamento della difesa del debole e dell’oppresso, base di inizio per il mantenimento dei diritti umani. La visione della guerra giusta, è propria del passato, quando il teorico e guida spirituale dei Templari, Bernardo da Chiaravalle enunciò: “Se il fine è giusto, non può essere sbagliata la lotta”.
La guerra di autodifesa è contemplata anche da Tommaso d’Aquino, il quale si sofferma sull’evidenza che la giustificazione alla difesa non è sufficiente, ma bisogna preservare i beni.
Questo vuol significare una guerra come sanzione, la cui finalità è la soddisfazione della richiesta di giustizia, un modo diverso ma parallelo di intendere l’attacco preventivo. La guerra mossa in favore di un popolo che sia oppresso dal regime al potere nella propria Nazione è giusta, in particolare secondo i canoni attuali. Dunque le operazioni di Peace keeping, tese al ristabilimento dell’ordine, della giustizia e del recupero dei diritti umani, sono l’esempio contemporaneo di guerra giusta; le forze di pace, cessati i crimini contro l’umanità perpetrati dal regime, però non dovranno applicare sanzioni che possano commutarli in invasori. Tutto questo è valido solo se l’intero popolo oppresso ritiene di essere tale, al contrario i lealisti al governo attaccato, si tramuteranno in autori di una guerra di autodifesa, la quale per i principi enunciati, diverrà giusta a sua volta. Per fedeli al regime, si intendono le sole formazioni politiche e militari al potere.
Pertanto le operazioni belliche dirette a punire un regime, avranno potere legale solo se autorizzate dall’intera comunità, la quale avrà inderogabilmente stabilito, amalgamando tutte le pluralità di concezioni sui diritti umani, la colpevolezza assoluta dello Stato da sanzionare e l’intervento militare dovrà comunque essere proporzionato alla minaccia, altrimenti la sua conduzione diverrà ingiusta. La guerra è una attività propria della vita umana, sia intesa dal punto di vista sociale che individuale e questo la fa includere nelle discipline umanistiche e scientifiche dell’uomo. Alexander Moseley definisce la guerra come l’uso della forza di un gruppo sociale per appianare gli interessi. Dunque una scelta per risolvere un problema dove lo Stato è la discriminante ad agevolare l’inizio di un conflitto, più esattamente l’assunzione della necessità disposizione per attuare un atto di forza, sino a creare una sorta di relazione fra due o più soggetti. Il concetto dei diritti umani diventa fondamentale per identificare la causa di una guerra che potrà essere definita come giusta; tutti gli esseri umani, indipendentemente dalle caratteristiche comunitarie, politiche e sociali non possono essere privati della sicurezza di non essere ucciso, di avere il cibo per sopravvivere, di godere dell’assistenza sanitaria, di poter disporre di un abito, in definitiva di non essere offeso nella sua dignità. In questo si definisce che l’unica guerra ingiusta è quella nucleare, la quale non discrimina i combattenti dai civili e supera il principio di risposta proporzionale alla minaccia. Il limite al concetto della guerra giusta sono i moderni sistemi d’arma convenzionali, infatti anche se la causa fosse tale, la forza distruttiva delle armi non ne consentirebbe la condotta corretta. Gli attacchi chirurgici propri dell’innovazione tecnologica, benché possano essere ben concertati nella loro realizzazione, è praticamente impossibile che non inducano effetti collaterali in ordine di vittime civili, violando il loro principale
diritto alla vita. Un esempio potrebbe essere quello di bombardare un asset nucleare, dove personale tecnico non belligerante è in servizio 24 ore su 24, oppure centrali elettriche o le dighe che assicurano acqua potabile alla popolazione, queste figurerebbero come un attacco alla società e non hai militari. Su questa valutazione, potrebbe valere il fondamento utilitaristico e non filosofico dei diritti, laddove un mero calcolo matematico farebbe pendere a favore della guerra giusta il numero dei diritti difesi da essa contro quelli violati, dove il fine essenziale è nel garantire la sopravvivenza del proprio popolo. Il rigore deontologico, però, non avalla tale calcolo, in quanto non si possono infrangere i diritti anche di un solo essere umano in favore di una moltitudine.
Dunque è il tramonto del concetto di guerra giusta, che diverrebbe inaccettabile, ma torna la differenza tra violenza ed uso legittimo della forza, ossia l’equilibrio valoriale tra l’aggressione subita e la risposta. L’autodifesa, se soddisfa e controlla i diritti dell’invasore, rimane il caposaldo della guerra giusta, di fatto quest’ultima è ipotizzabile, ma per la natura umana non semplicemente realizzabile. Un singolo episodio di risposta inadeguata all’offesa sovvertirebbe il principio di autodifesa, avvalorando la tesi di Karl von Clausewitz che ritiene la guerra come un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti. Le operazioni legate all’antiterrorismo avrebbero la connotazione di guerra giusta, dove innegabilmente il fine ultimo è ristabilire i diritti dei civili che rischiano la vita negli attentati dei sovversivi, ma i servizi segreti dei Paesi maggiormente coinvolti in episodi terroristici, avallano tecniche di negazione e contrapposizione pari alle fazioni estremistiche. Porre in essere attività belliche a favore dei basilari diritti umani universalmente riconosciuti è un fine giusto, pertanto non si deve bandire in assoluto la forza, se questa tende al recupero della dignità, ossia se garantisce nel tempo il rispetto dell’uomo.
L’uso della forza strettamente equivalente all’offesa subita, è giustificabile nell’autodifesa a livello statale e nella forza pubblica per il mantenimento della legalità. La branca della filosofia morale, indica come “dovere imperfetto” la necessità di fermare i crimini contro l’umanità. Ossia è una regola che la Comunità deve perseguire, pertanto è una decisione demandata all’ONU, dove tutti gli Stati con potere di veto nel Consiglio di Sicurezza, devono avere una volontà comune di intenti, fissando l’obiettivo di un equilibrio di potere, senza rivalità od atteggiamenti egemonici. Nessuna Nazione dovrà prevalere sull’altra avvalendosi dell’hegeliano “diritto assoluto” ed imponendo la propria visione dei diritti dell’uomo, della guerra e della pace. In sostanza di applicare la propria egemonia sulle altre. Di fatto, se le violazioni ai diritti, i genocidi, la messa in schiavitù o la pulizia etnica sono incontrovertibilmente provati, a fronte di un fallimento della diplomazia, l’intervento militare diventa ineluttabile. Come esposto da Michel Walzer, è necessario incentrare l’attenzione sulla dicotomia tra guerra ed autodifesa. Alla prima non si può assegnare l’idea metafisica di estremo, dove le operazioni belliche rappresenterebbero l’estrema ratio per risolvere una controversia, infatti l’estremo è irraggiungibile e nel caso della guerra è sempre possibile tentare
di risolvere le dispute con la diplomazia. L’autodifesa è una forma di giustizia e ripristino della legge, dove l’aggredito combatte per recuperare il proprio status. La giustizia, richiede l’uso della forza, ma questa a sua volta, diventa legittima solo qualora tutte le ragionevoli soluzioni abbiano perso le prospettive di successo e la legge, in base al paradigma realista, tace in tempo di guerra.
Nell’autodifesa la “ragion di guerra” giustifica solo l’uccisione di coloro che a ragione sono suscettibili di essere uccisi, ossia i soldati, i quali a differenza dei civili, sono consapevoli del pericolo di perdere la vita. È esplicativo il concetto espresso da Albert Camus, in base al quale non si può uccidere se non si è pronti a morire. L’attacco che subisce un militare, non è diretto verso la persona fisica, bensì al suo ruolo di belligerante. La discriminazione fra i soldati che combattono una guerra giusta e quella ingiusta è determinata dalla giustizia e dal diritto; l’aggredito ha la necessità di difendersi per giustizia e per recuperare i propri diritti, ma non dovrà violare gli stessi parametri nei confronti dell’aggressore. Dunque sarà necessario limitare la risposta ai soli militari invasori. Walzer specifica che il soldato ha la responsabilità di accettare i rischi personali piuttosto che uccidere un civile innocente; l’istinto di conservazione non deve prevaricare i diritti dei non
belligeranti. In definitiva, qualsiasi risposta militare, per essere giusta, dovrà garantire l’indennità dei non combattenti, una proporzionalità tra l’aggressione subita ed il colpo che si andrà ad infliggere e non sfociare in episodi di vendetta o rivalsa. La difesa non può a sua volta tramutarsi in abuso. Formalmente, come descritto dal giurista Carl Schmitt, la “justa causa”, non deve prescindere dallo “justus hostis”, ossia il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo, perciò dovrà essere affrontato come un individuo dai pari diritti contro il quale è necessario limitare l’uso della forza. Inoltre, afferma che nella dottrina dello “jus in bello” è contemplata la discriminazione degli obiettivi, in quanto ledere il commercio e l’economia dell’avversario coinvolge non solo l’Industria della Difesa, bensì i cittadini e non ultimo il Paese neutrale che intrattiene rapporti commerciali con il nemico. Anche Norberto Bobbio ha affrontato la teoria della guerra giusta nel profilo della
giurisprudenza, sottolineando che in tal caso è necessaria una distinzione fra un processo di cognizione ed uno di esecuzione. Nel secondo caso, la guerra è intesa come pena o come sanzione da comminare al nemico e l’atto di belligeranza è esaltato nella forza che dunque si pone al servizio del diritto. Nel processo di cognizione, le operazioni militari trovano il loro limite in quanto non adatte a discriminare il giusto dall’ingiusto, infatti manca un attore al di sopra delle parti che possa giudicarne i criteri di esecuzione, questo perché la guerra è giusta per entrambi i contendenti. Tale affermazione poteva essere vera nelle società del passato, ma nell’era della globalizzazione e dell’iperconnessione, è possibile per un soggetto terzo, giudicare quale dei due belligeranti si sia reso reo dell’aggressione, non ultima la stessa ONU. Una procedura giudiziaria ha come scopo ultimo quello di stabilire da quale parte sia la ragione, ma in un confronto armato il vincitore storicamente si tramuta nel “giusto”. Pertanto, la giurisprudenza nelle sue linee guida può sancire le regole per connotare una guerra giusta, ma i conflitti non sono dei processi giudiziari. Bobbio assolve la guerra di difesa calandola nel diritto dove viene resa valida negli ordinamenti giuridici, ma come detto, la salvaguardia dei diritti degli aggrediti non giustificherà mai l’annullamento di quelli degli avversari, pena la perdita dello stato di “justa causa”. La guerra preventiva, intesa da Bobbio, è una risposta violenta ad una temuta o minacciata ed è giustificata anche se combattuta con armi atomiche. Ma questo è in netta contraddizione sul valore che si deve assegnare alla guerra giusta, la quale non dovrà mai ledere la vita dei civili. La declinazione della teoria della guerra giusta è del 1991, quando il Segretario generale delle Nazioni Unite definì il concetto del “diritto ad intervenire in nome della moralità”, a ridosso della prima Guerra del Golfo. Il riallineamento della geopolitica mediorientale ha sottratto alla guerra giusta la limitazione giuridica trasformandola in un conflitto asimmetrico, favorendo il principio di polizia internazionale, a difesa dei diritti umani e della democrazia. Tutte le operazioni militari come quelle in Bosnia od Afghanistan sono state connotate come un confronto tra il terrorismo e la giustizia, ma in realtà altro non erano che lo stabilire un rapporto gerarchico tra i poteri forti occidentali ed il resto del mondo, ma il trattamento riservato ai prigionieri ha superato il concetto stesso dei diritti umani. La giustificazione è stata nel vantaggio reso all’intera umanità, ma rimane un processo discriminatorio e falsamente moralistico. Gli interventi armati successivi all’11 settembre, come anche l’offensiva “piombo fuso” lanciata da Israele nella Striscia di Gaza, sono stati legittimati con riferimenti al bene collettivo, ma questo era un espediente per raccogliere i consensi pubblici. Inoltre, si connotava la necessità di civilizzare i popoli attaccati, ma si trattava esclusivamente di una occidentalizzazione di quelle Nazioni. Tutti atteggiamenti e principi non consoni alla teoria di guerra giusta, ma di assoluzione di un conflitto. La guerra, in queste occasioni è intesa come un male inevitabile, dove l’uccisione di un singolo uomo è un atto da condannare, ma l’eliminazione dei nemici si traspone come accettabile. Adriano Prosperi, ha sottolineato che la guerra per la difesa dell’Occidente dal terrorismo ha ingenerato una regressione delle stesse regole della vita. Al contrasto ai terroristi, si sono aggiunte le guerre umanitarie, l’etnocidio, tutte terminologie atte a giustificare le opere di prevenzione ai possibili pericoli causati da nemici potenzialmente pericolosi, tutti casi in cui molte sono state le vittime inermi. Il concetto di just war, è stato dunque usato per scopi propagandistici, ma poi sovvertito dai maltrattamenti dei civili rei di vivere in uno Stato fallito o canaglia, in base alla terminologia della fase multipolare successiva alla bipolare generata dalla guerra fredda. La concezione di guerra giusta è ricordata da Roland Bainton nel citare Platone: per poter essere considerata giusta,
deve avere come obiettivo la rivendicazione della giustizia ed il ristabilimento della pace. Dove, però, l’applicazione della giustizia sia equa, i diritti dei vinti non siano lesi e la pace non sia negativa. Per quanto concerne la guerra civile non è mai giusta per definizione, non certo per i fini che si prefigge, ma perché le vittime civili sono parte stesse del conflitto: a tal proposito Hobbes ipotizza la convivenza tra libertà ed obbedienza come l’unico baluardo alla violenza ed alla conseguente guerra civile la quale, secondo l’ordine westfaliano, deve essere abolita in via di principio. In definitiva, la teoria della guerra giusta, rimane di difficile se non impossibile applicazione, al contrario il concetto di pace negativa permane in quegli Stati non in grado di regolare correttamente la forza pubblica a contrasto della delinquenza comune e degli elementi
eversivi, sia per inefficienza strutturale, che per il rispetto dei diritti umani dei perseguiti violati dallo Stato stesso.

Articolo in media-partnership con Cestudec a cestudec 2

Bibliografia:
Michael Walzer, “Just and injust war”- New York Basic Books, 1977.
Giuseppe Pili, “La guerra come attività culturale” – Polemos, 2014.
Laura Secci, “Etica e Forze Armate” – Rivista Informazioni della Difesa, 2007.
Luigi Lorenzetti, “La dottrina della guerra giusta: ancora sostenibile?” – www.luigilorenzetti.net
Andrea Salvatore, “Schmitt e la teoria della guerra giusta” – Rivista Behemoth, n. 40 (2009)
Norberto Bobbio, “Il problema della guerra e le vie della pace” – Il Mulino, 2009.
Alessandro Simoncini, “Dalla guerra giusta alla crisi del sistema westfaliano” – www.dialetticafilosofia.it
Francesco Viola, “La teoria della guerra giusta e i diritti umani” – Rivista di Diritto Costituzionale, 2003.
Roland Bainton, “Congregationalism and the Puritan Revolution from the just war to the Crusade” – Boston, 1943
Thomas Hobbes, “Leviatano” – Armando Editore, 1998