L’errore di Gheddafi: la questione irrisolta della successione

di Davide Delaiti –

Khamis Gheddafi, il più giovane figlio dell’ex dittatore libico, è stato ucciso il 20 ottobre in seguito agli scontri avvenuti nei pressi di Bani Walid, una delle ultime roccaforti dei lealisti libici. I figli di Gheddafi, che erano una pedina importante nell’ex regime e che avrebbero potuto rappresentare il futuro politico della Libia,  sono oggi esiliati, uccisi o sono in attesa di condanna. Il 24 febbraio del 2011, in piena crisi libica, Giovanni de Mauro scriveva sull’”Internazionale”: “i figli sono pronti a prendere il suo posto” (di Gheddafi evidentemente).
La convinzione che il futuro politico libico avrebbe riguardato in primi la prole del dittatore si era radicata nella stampa occidentale.
In realtà la questione della successione era molto più complessa e fu a lungo oggetto di dibattito tra i più accreditati studiosi di regimi dittatoriali, tra cui Axel Hadenius, professore di Scienze politiche all’Università di Lund, Svezia. Egli divide i regimi autoritari sulla base di tre modalità di “power mantainance” (mantenimento del potere): la successione per via ereditaria, l’uso della forza militare e le elezioni popolari, cui rispettivamente corrispondono il regime monarchico, militare e elettorale. Un esempio cristallino di monarchia assoluta è  l’Arabia Saudita, di regime militare il Cile del 1973 e di regime elettorale la Corea del Nord (inserito nella sottocategoria di regimi elettorali a partiti unico). E la Libia? Lo Stato nordafricano è inserito in una categoria residuale, che non appartiene a quelle sopraelencate, proprio per l’incertezza politica del post-Gheddafi, una questione mai chiarita nell’arco dei 40 anni di regime dittatoriale. Sin dagli albori dell’epoca gheddaffiana, negli Anni settanta, il tema era considerato tabù. La carica del cosiddetto “Condottiero della Rivoluzione” ricoperta da Gheddafi, ideologizzata e autoconferitasi, era stata creata conseguentemente alla “Rivoluzione di Settembre” del 1969 che  portò al potere il dittatore (un sostanziale colpo di stato). Secondo l’ideologia, il titolo di condottiere traeva la sua legittimità dalla contingenza storica (dalla Rivoluzione) e pertanto non era trasmissibile a nessun altro, nemmeno ai figli. Lo stesso Gheddafi  si era così espresso: “In Libia non c’è nessun presidente o vicepresidente, nessun erede al trono, per questo motivo non possono dire “tuo figlio deve succederti” (…)  I miei figli, quando avranno 18 anni, avranno il diritto di prendere parte al progetto politico libico come qualsiasi altro cittadino (…). Udiamo che negli altri stati arabi, i figli dovrebbero succedere al loro padre. Io sono al contrario il Condottiero della Rivoluzione del Settembre 1969. E questa rivoluzione non si ripete. Mio figlio non può diventare Condottiero della Rivoluzione, che ebbe luogo nel 1969. La Rivoluzione di Settembre accade una volta sola”.
La carica di  “condottiero della rivoluzione”, che rappresentava  valori storici e ideologici che poggiavano su un intransigente antiamericanismo, non esprimeva lungimiranza né tantomeno pragmatismo politico. Negli ultimi quindici anni di regime serpeggiava tra le file dei fedelissimi di Gheddafi il quesito sul futuro politico della Libia dopo la dipartita del dittatore. Era cosi scontato che la sopravvivenza del regime avrebbe dovuto concretizzarsi tramite uno degli eredi? I figli erano sì stati inseriti strategicamente nel progetto politico del Paese, ma non ricoprirono mai ruoli politici ufficiali. Muhammad controllava il settore della comunicazione in Libia ma non aveva aspirazioni  politiche,  invece Sa’adi Mu’ammar, Mu’tasim Billah, Hannibal e Khamis facevano parte dell’apparato militare libico, con incarichi differenti. Said al-Islam  era probabilmente colui che politicamente risultava il più credibile in quanto a capo dell’associazione indipendente “Gaddafi Delevopment Foundantions”. Non ricopriva quindi nessuna carica politica ma esercitava differenti funzioni di rilievo:  fungeva da intermediario tra le compagnie petrolifere estere e il padre  sovraintendeva progetti legati allo sviluppo sul territorio libico. Saif al-Islam godeva di buoni rapporti a livello internazionale con i paesi dell’occidente che gli permisero di portare avanti la sua visione riformista (soprattutto per quanto riguarda i diritti civili) e ingaggiò una vera e propria battaglia politica e mediatica contro la linea dura di governo del padre. A causa dei dissapori politici con il figlio, Gheddafi fu restio a conferirgli un ruolo di rilievo nel suo governo e ciò inficiò la credibilità politica e istituzionale di Saif al-Islam, che, a ridosso delle rivolte popolari del 2011, era chiaro non sarebbe mai succeduto al padre. Negli Anni duemila si era insinuato tra le alte cariche del regime (ministri e cosiddetti “Comitati Rivoluzionari”) un sentimento di insicurezza dato da un sempre più probabile vuoto di potere nel caso di una detronizzazione improvvisa del dittatore. Inoltre il popolo libico era atterrito probabilmente dall’idea di non vedere una fine al governo di Gheddafi, a causa della mancanza di una figura postuma certa, come poteva essere quella di Saif Al-Islam, con il suo programma riformista. Gheddafi commise un errore tardando eccessivamente a chiarire e ad assicurare la continuazione del regime, e l’incertezza gli fu fatale. Sarebbe riduttivo e superficiale attribuire la fine della dittatura a questa mancanza, certo è che l’incertezza del futuro contribuì a far scricchiolare le fondamenta del suo autoritarismo.