di Giuseppe Gagliano –
Il Libano, terra di equilibri fragili e ferite mai rimarginate, torna al centro del grande scacchiere mediorientale. Gli Stati Uniti hanno sferrato un nuovo colpo a Hezbollah, colpendo con sanzioni due alti funzionari e due facilitatori finanziari, accusati di tessere una rete di denaro che collega donatori stranieri, Libano e Iran. Il Dipartimento del Tesoro, con il vice segretario Michael Faulkender, parla chiaro: “Hezbollah vive di fondi esteri, e noi taglieremo ogni arteria”. Ma dietro il linguaggio tecnico si nasconde una partita più grande, dove le sanzioni sono solo una mossa in un gioco di potere che rischia di incendiare il confine con Israele.
L’annuncio arriva in un momento curioso. Donald Trump, fresco di ritorno alla Casa Bianca, dichiara che gli USA sono “molto vicini” a un accordo nucleare con Teheran. Una contraddizione? Forse. Da un lato, Washington stringe la morsa sul principale alleato dell’Iran in Libano; dall’altro, apre spiragli di dialogo con la Repubblica Islamica. È la politica del bastone e della carota, ma in un contesto come quello libanese, dove ogni passo falso può costare caro, il rischio di scivolare nel caos è concreto.
Il Libano, del resto, è a un bivio. Dopo il conflitto con Israele dello scorso anno, che ha lasciato Hezbollah indebolito e il Paese in ginocchio, Beirut ha scelto due figure centriste – Joseph Aoun come presidente e Nawaf Salam come primo ministro – per provare a voltare pagina. Trump lo chiama “un’opportunità”, e Joel Rayburn, assistente segretario di Stato, parla di “un’occasione d’oro” per rilanciare l’economia e la politica libanese. Ma non tutti vedono il futuro con lo stesso ottimismo. Hassan Fadlallah, deputato di Hezbollah, tuona contro le interferenze straniere, puntando il dito contro i diplomatici americani: “Nessuno ha il diritto di immischiarsi nei nostri ministeri”. Le sue parole sono un monito, ma anche un riflesso della paura di perdere terreno in un Paese dove il gruppo sciita, pur colpito, resta una forza radicata.
E poi c’è il confine, una linea che brucia. Il cessate il fuoco del 27 novembre 2024 tra Israele e Hezbollah avrebbe dovuto spegnere le fiamme, ma gli scontri non si sono mai davvero fermati. Raid aerei israeliani continuano a colpire il Libano meridionale, persino i sobborghi di Beirut, roccaforte del gruppo. Cinque colline strategiche lungo il confine restano occupate da Israele, in violazione della tregua. E il 13 maggio, un incidente ha fatto salire la tensione: spari israeliani hanno sfiorato una base dell’UNIFIL a Kfarchouba, mentre laser sono stati puntati contro peacekeeper in pattuglia. L’Onu ha denunciato “comportamenti aggressivi” di Israele, richiamando la Risoluzione 1701, che vieta la presenza di armi non statali a sud del fiume Litani e impone il ritiro israeliano. Hezbollah, dal canto suo, giura di aver smantellato le sue postazioni nella zona. Ma la fiducia, qui, è merce rara.
Le sanzioni USA non sono solo un colpo economico. Sono un messaggio politico, diretto a Teheran, a Beirut e a Gerusalemme. Indebolire Hezbollah significa ridisegnare gli equilibri del Libano, ma anche testare la tenuta del nuovo governo e la pazienza dell’Iran. Eppure, il rischio è che questa pressione alimenti il risentimento e rafforzi, anziché smantellare, il sostegno al gruppo sciita. In un Paese che Fadlallah ricorda essere sopravvissuto a “cinquant’anni di guerra civile”, ogni mossa esterna è un filo che tira la trama delicata della convivenza.
Il Libano guarda al futuro con il fiato sospeso. Le Forze Armate Libanesi, lodate da Washington, potrebbero diventare il perno di una nuova stabilità, ma solo se riusciranno a navigare tra le pressioni interne e quelle straniere. Intanto, al confine, ogni sparo è un promemoria: la pace, qui, è un lusso che nessuno si può permettere di dare per scontato.