Libia. Il presidente della Camera Italo-libica, ‘Per portare via i kalashnikov bisogna creare il lavoro’

a cura di Vanessa Tomassini

I rapporti tra Italia e Libia hanno origini lontane. Il esceaese nordafricano fu una colonia del Regno d’Italia ufficialmente dal 1912 al 1947. I rapporti si sono incrinati particolarmente nei primi venti anni della Repubblica Araba di Libia di Muammar Gheddafi, il quale ha confiscato i beni delle aziende e i privati italiani a partire dal 1970, portando avanti una richiesta libica di risarcimento per danni coloniali e di guerra nei confronti del “Bel Paese”. Un’escalation di tensione si è registrata nel 1986, a seguito dell’attacco americano a Tripoli e Bengasi, a cui ha fatto seguito un attacco missilistico del rais verso le coste di Lampedusa. Diversi sforzi sono stati fatti dai vari governi italiani nel corso della storia per cercare di recuperare la fiducia dell’ex colonia, che rappresenta il principale fornitore di gas per la penisola. In questo quadro va letto il Comunicato congiunto Dini-Mountasser del 1998, che ha portato a un notevole miglioramento delle relazioni bilaterali e che ha visto il suo apice con la stipula del Trattato di Bengasi di amicizia e cooperazione, nel 2008, tra Muammar Gheddafi e l’ex premier Silvio Berlusconi. In seguito all’accordo la Libia è divenuta per l’Italia il principale alleato strategico e commerciale sulla sponda nordafricana. Il patto di amicizia ha aperto ufficialmente la strada a tantissimi imprenditori italiani in cerca di fortuna in Libia. Nel 1997 nasce, a Roma, la Camera di Commercio italo-libica. La Camera avrà un ruolo fondamentale nello sviluppo dei rapporti tra le due nazioni, contribuendo incisivamente all’interscambio economico tra italiani e libici, in particolar modo tra piccole e medie imprese. Certi che la stabilità di un Paese, seppur frammentato e diviso come appare oggi la Libia, passa anche dalla sua economia, abbiamo raggiunto l’architetto Gianfranco Damiano, presidente della Camera di Commercio italo-libica che ha risposto ad alcune nostre domande.

– Presidente, quante sono le aziende italiane attualmente ancora operanti in Libia?
“Da quello che so, almeno una ventina”.

– Ci sono in questo momento aziende che decidono di investire in Libia oggi, malgrado la situazione in cui versa il Paese?
“Io ricevo giornalmente richieste di aziende che vorrebbero andare ad operare in Libia, anche da parte di imprenditori che non ci sono mai stati. Per via della crisi in Italia in molti vorrebbero andare in Libia, oltre a quelle aziende che già vi operavano e che sono state costrette ad andare via allo scoppio della guerra civile del 2011. Consideri che i flussi commerciali non si sono mai interrotti, sono calati – saremo forse a un decimo dei flussi precedenti, un 15% – ma i rapporti bilaterali tra Italia e Libia non si sono mai arrestati, soprattutto l’esportazione dei prodotti agroalimentari e l’importazione di quelli legati all’estrazione petrolifera, olio e gas. La Libia oggi non ha capacità produttiva, ma domani potrebbe averla. In previsione di una stabilità, molte aziende italiane in concorrenza a quelle straniere si stanno preparando, perché è più facile entrare oggi piuttosto che dopo, perché poi la competizione sarà alle stelle”.

– Tuttavia il generale Khalifa Haftar il 14 luglio scorso emanava una nota in cui si vietava l’apertura di filiali sul territorio libico a qualsiasi azienda italiana e qualsiasi collaborazione tra aziende libiche e quelle del nostro Paese. Crede che sia questo uno dei motivi che abbia spinto il ministro degli Interni Marco Minniti ad andare a Bengasi?
“Assolutamente no. Io penso che i politici italiani non abbiano nemmeno nell’anticamera del cervello i problemi delle piccole e medie imprese operanti in Libia. Noi abbiamo il problema dei crediti, che è molto serio, sia per le imprese, sia strategicamente. È un discorso lungo questo, ma provo a sintetizzare. Se si riuscisse a far rientrare questi crediti, le aziende apporterebbero nuova linfa al processo di stabilizzazione. Quello che consolida una nazione è il lavoro, non è la fornitura di armi, la formazione del personale, le motovedette ecc. Per portare via i kalashnikov bisogna offrire il lavoro e le aziende italiane hanno questa capacità. Soprattutto le imprese già operative in Libia hanno un bagaglio di rapporti e conoscenze eccezionali. Se non vengono aiutate a rientrare in Libia, lasciano il campo ad aziende straniere con maggiori capacità di mediazione. Noi in questo momento siamo svantaggiati, rischiamo di finire fuori mercato. Sulla questione crediti, noi abbiamo circa 600 milioni di euro da riscuotere. Il lavoro deve essere una priorità, la sicurezza è ovvio, ma non si può non pensare alla filiera ben remunerativa che era presente in Libia. Un punto di PIL, l’Italia lo sviluppa anche lì”.

– Non c’è un dialogo tra la Camera di Commercio e il governo?
“Il dialogo c’è, abbiamo dei forti scontri più che altro, ma c’è un’inerzia della politica su questi temi, che non si interessa alle piccole medie imprese. Come sempre vengono tutelati i grandi interessi, anche se ENI ci pensa già da sè. Parlo di alcune commesse, come l’aeroporto di Tripoli, che sembrano essere state abbandonate”.

– Parlando dell’aeroporto, cosa è successo? È stato ristrutturato?
“No, l’Italia si è offerta di ristrutturarlo. A Tripoli sono presenti due aeroporti: l’internazionale, che è andato completamente distrutto durante i bombardamenti, e quello del Mitiga, vicino alla città. L’ENAC si è offerta di ristabilire, co-pagando, le condizioni di sicurezza di gestione del volo e della sicurezza a terra del Mitiga di Tripoli, quindi stanno mettendo in piedi una torre di controllo provvisoria. L’accordo, siglato dalla presidente Neri dell’ENAC, è visibile sul sito dell’organizzazione. Io non avrei puntato di più al sistema Italia, mettendo in piedi altre situazioni favorevoli per le nostre imprese. Doveva essere un appoggio strumentale per consentire la ripresa dei rapporti. Noi, come Camera, ci siamo mossi per ristabilire i voli tra Roma e Tripoli, perché è importante consentire sia alle aziende di recarsi in Libia senza tanti giri, ma è anche di fondamentale importanza, portare gli imprenditori libici in Italia, evitando un giro lunghissimo e problematico dalla Tunisia. Se un commerciante libico deve acquistare un bene, deve prima aspettare il visto dall’Italia con attese di giorni o settimane. Se i libici non trovano una facilitazione, vanno in Turchia e in altri Paesi”.

– C’è un dibattito interno al Viminale se riaprire o meno i cieli italiani alla Libia?
“Qualcosa c’è nell’aria, ci blocca un decreto antiterrorismo del ministero degli Interni che prevede che io possa partire da Roma e andare a Tripoli, ma non viceversa. C’è il problema che le compagnie aeree libiche sono sulla black list in Europa, mentre Alitalia seppure interessata, ha i seri problemi che tutti sappiamo. Un discorso economico serio non è stato ancora fatto, soprattutto su come il nostro Paese possa alleviare lo scenario libico”.

– Tornando alla questione politica, come Camera di Commercio con chi vi interfacciate sul territorio? Tripoli o Tobruk?
“Abbiamo relazioni con tutta la Libia. Certo, avendo la sede (l’ufficio distaccato) a Tripoli, abbiamo maggiori contatti con l’amministrazione tripolina. Ciò non toglie che abbiamo comunicazioni riservate con la Cirenaica”.

– Veniamo alla Francia. Crede che il nuovo presidente, Emmanuel Macron, abbia messo in qualche modo i bastoni tra le ruote all’Italia?
“Togliendomi per un momento il cappello di presidente della Camera e guardando per un istante dall’esterno, i francesi sono molto presenti in Libia, nel sud e oltre i confini con il Mali. Sono molto dentro, in parte, in Misurata e pesantemente a Tobruk. Noi siamo rimasti un po’ al palo e la nostra economia ne soffrirà. Libia non è soltanto immigrazione clandestina. Sulle scelte di Minniti io non commento anche se i rapporti con le milizie, non sono indice di trasparenza e democrazia. Abbiamo fermato l’immigrazione, riaprendo i campi di concentramento in Libia”.

– Conoscendo il territorio, quali strategie suggerite?
“Ci sono diversi piani per arginare l’immigrazione, il cui controllo passa inevitabilmente dai confini sud del Paese. La stessa Libia soffre di un’immigrazione incontrollata dal sud del continente. Le dinamiche economiche del sud sono estremamente complesse, e non dipende soltanto dai sindaci del sud. È difficile sostituire i proventi del traffico di droga, armi e umani con attività alternative legali. Sono necessari progetti come quello del mercato del pesce libico, presentato in questi giorni a Trieste, nei quali le aziende italiane possono avere un ruolo protagonista. Un disegno lineare in questo senso al momento non si vede, forse verrà fuori nel tempo, ma un impiego dei migranti, che offra loro la possibilità di un mestiere in aziende sul confine, risulterebbe sicuramente una scelta migliore per tutti”.