di Giuseppe Gagliano –
Quando a fine agosto una motovedetta libica ha aperto il fuoco per venti minuti contro la nave di soccorso Ocean Viking in acque internazionali, la vicenda avrebbe potuto segnare una svolta nelle politiche europee verso Tripoli. Invece, poche settimane dopo, la Commissione europea ha respinto la richiesta di oltre quaranta ONG di sospendere i fondi destinati alla Guardia Costiera libica. Bruxelles ha confermato il sostegno avviato nel 2017, circa 46 milioni di euro, insistendo che “se vogliamo migliorare la situazione, è importante continuare a impegnarci”. Un’affermazione che rivela la scelta di restare ancorati a una collaborazione mai davvero risolutiva.
Il cuore del problema è il dilemma che accompagna la politica migratoria europea: la necessità di contenere i flussi irregolari verso le coste italiane e maltesi e, al tempo stesso, l’obbligo di rispettare le convenzioni sul soccorso in mare e i diritti dei migranti. Delegare a un Paese instabile come la Libia la sorveglianza del Mediterraneo centrale ha significato, di fatto, trasferire anche la responsabilità politica di ciò che accade in mare. Ma quando, come nel caso di Zikim, un intervento si traduce in violenza letale contro civili e operatori umanitari, l’Europa non può invocare solo l’autonomia delle autorità libiche.
Dal 2017, sotto impulso italiano, l’UE ha privilegiato la cosiddetta esternalizzazione delle frontiere: fornire mezzi, addestramento e fondi a guardie costiere di Paesi terzi perché intercettino i migranti prima che raggiungano acque europee. Una scelta che ha ridotto gli sbarchi a Sud ma ha moltiplicato le accuse di complicità in abusi, detenzioni arbitrarie e respingimenti collettivi. Il caso Ocean Viking mostra quanto questa strategia non abbia innalzato gli standard operativi libici, lasciando intatti i rischi umanitari e giuridici.
Dietro le scelte europee c’è anche una valutazione geopolitica: ritirare i fondi significherebbe abbandonare il terreno ad altri attori – Turchia, Russia, Egitto – che puntano a consolidare influenza sulle coste libiche e sul traffico marittimo. Bruxelles preferisce restare presente, pur a costo di un danno reputazionale. La cooperazione con Tripoli è anche un affare economico: fornitura di motovedette, programmi di formazione, progetti infrastrutturali finanziati con fondi europei e italiani. Interrompere questi flussi avrebbe un impatto sulle aziende coinvolte e sugli equilibri locali di potere.
Il paradosso resta irrisolto: per difendere i propri confini, l’Unione europea accetta di affidarsi a un partner che non garantisce standard minimi di rispetto dei diritti umani, in nome di una stabilità che è spesso solo apparente. Ogni incidente, come quello dell’Ocean Viking, erode la credibilità europea e riapre il dibattito interno tra Stati membri favorevoli alla linea dura e Paesi più sensibili alle istanze umanitarie. Senza un meccanismo comune di ricerca-soccorso e canali legali di ingresso, Bruxelles continuerà a muoversi in un limbo: pagare per contenere i flussi, ma senza poter pretendere davvero il rispetto delle regole.












