di Giuseppe Gagliano –
Tripoli ritorna fragile, come sempre. Dopo l’ennesima settimana di scontri tra fazioni armate, otto civili uccisi, prigioni violate e ambasciate evacuate, l’ONU annuncia l’ennesima toppa diplomatica: un “comitato di tregua”. Ma il copione è già visto. Gli accordi vengono firmati al tramonto e infranti all’alba. In Libia, la tregua è il modo con cui si prende tempo prima della prossima esplosione.
L’assassinio mirato del comandante Abdel Ghani al-Kikli ha innescato la spirale. Ucciso dalla Brigata 444, formalmente allineata con il governo di Unità nazionale, ma nella realtà coinvolta in uno dei tanti giochi interni di potere. La Libia del post-Gheddafi non è uno Stato, ma un campo minato di bande armate, milizie istituzionalizzate, potentati locali e figure deboli al comando. Abdul Hamid Dbeibah, primo ministro riconosciuto dall’ONU, governa solo ciò che le milizie gli lasciano governare. Ed è per questo che oggi chiede di “smantellarle”. Troppo tardi, troppo debole, troppo esposto.
Le dimissioni di tre ministri, la richiesta di elezioni, le proteste di piazza sono lo sfondo di una sceneggiatura scritta altrove: nei rapporti di forza tra Tripoli e la Cirenaica, tra le bande cittadine e i clan regionali, tra gli affari petroliferi e gli equilibri internazionali. La verità è che ogni volta che si spegne un focolare a Tripoli, se ne accende un altro in una sala riunioni dell’Est. Haftar osserva, pronto a muovere i suoi uomini. Tobruk condanna ma prepara alternative.
L’ONU fa il suo mestiere, come può: appelli alla calma, comitati, richiami al diritto internazionale. Ma in Libia il diritto non è mai stato un’architettura solida, solo un velo dietro cui si consuma il saccheggio sistemico della sovranità. Stephanie Williams lo aveva detto chiaramente: finché il controllo delle risorse e del potere decisionale resterà centralizzato a Tripoli, ci sarà guerra. Perché ogni gruppo vuole una fetta, e nessuno si accontenta delle briciole.
La Libia è ancora oggi un esperimento fallito di post-intervento. Non esiste una strategia per la ricostruzione, solo tentativi tattici di contenimento. E mentre l’Europa si preoccupa dei flussi migratori e si accontenta di avere una facciata di stabilità, sul campo la realtà è quella di una guerra a bassa intensità ma permanente. Dove chi vince, lo fa per logoramento. E chi perde, sono sempre i civili.