L’occidente e i suoi “errori di valutazione”

di Dario Rivolta * –

Due sono i comuni errori di valutazione che i non addetti ai lavori commettono quando osservano il comportamento dei potenti nelle azioni di politica internazionale. Il primo è che i governi (pesi e contrappesi inclusi ove esistenti) siano i veri e unici decisori nel prendere decisioni politiche. Il secondo che tali scelte siano sempre ben ponderate, razionali e lungimiranti. Ovviamente i meccanismi decisionali sono diversi se presi da uno Stato basato su regole democratiche o da uno autocratico con penchant più o meno dittatoriale.

Chi decide veramente.
Cominciamo dai poteri autocratici. Perfino quando assumono la loro forma estrema di dittatura, colui che appare come un capo solitario e indiscutibile in realtà non è mai così potente e deve sempre fare i conti con i capifila di altri gruppi influenti che lo circondano e che, chi più chi meno, lo condizionano. L’autocrate più abile riesce a mantenere il suo potere fino a che può far sì che, sotto di lui o al suo fianco, ogni vice-potente sia in conflitto con gli altri suoi pari per ingraziarsi il numero uno. Dovrà, quest’ultimo, fare concessioni volta per volta all’uno o all’altro per mantenerne la fedeltà e impedire che possano coalizzarsi contro di lui. È il famoso “divide et impera” di antica memoria.
Nelle democrazie il processo è ancora più complesso. Formalmente esiste la divisione dei poteri che si manifesta nelle varie competenze: il giudiziario, il legislativo e l’esecutivo. Chi conosce la società sa, tuttavia, che ciò non esaurisce il gioco delle forze in campo: esistono altre realtà, non necessariamente istituzionalizzate, che influiscono sulle scelte finali dei governanti. I sindacati dei lavoratori dipendenti e dei datori di lavoro sono solo i più evidenti, ma a loro si aggiungono altre forze meno visibili costituite da varie lobbies portatrici di interessi parziali o settoriali. Inoltre, non va dimenticata l’inaggirabile presenza delle strutture burocratiche che non oseranno mai contrapporsi apertamente al potere ufficiale ma che possono, pur assentendovi formalmente, vanificare, ritardare o annullare nella pratica le decisioni assunte dagli organi superiori. Infine, non va sottovalutata l’opinione pubblica. Ciò vale sia per le democrazie sia per le autocrazie, seppur con risultati e l’uso di strumenti alquanto diversi. Da sempre destinatario della propaganda da parte dei vari gruppi di potere, il sentimento popolare è pur sempre quello che concede sul medio e lungo termine la legittimazione o la delegittimazione di chi comanda. Si badi bene che la cosiddetta opinione pubblica è una cosa complessa e, come dimostrano tanti studi sull’argomento, limitarne l’ambito all’azione dei media è fortemente riduttivo.
Un secondo errore di valutazione che si commette cercando di spiegare o comprendere le scelte fatte dai governanti è perfino più diffuso del primo. Sbagliando, si pensa comunemente che le informazioni, i ragionamenti e le organizzazioni a disposizione dei governi (palesi o segrete che siano) raggiungano un livello di certezza e di efficienza da rendere pressoché impossibile il commettere gravi errori da parte di chi deciderà. Purtroppo non è così e tanti esempi lo dimostrano inequivocabilmente. Non solo perfino i servizi segreti più efficienti non riescono sempre a prevenire i possibili misfatti, ma, a volte, i loro suggerimenti sbagliati sono i maggiori colpevoli di errori gravissimi commessi dai governi cui loro rispondono. Esempi (non esaustivi) ne sono gli avvenimenti dell’11 Settembre 2001 o, più recentemente, la strage compiuta da Hamas in Israele il 7 Ottobre 2023. In entrambi i casi i rispettivi governi non erano stati preavvertiti di ciò che sarebbe successo perché i servizi segreti non avevano saputo scoprire in anticipo ciò che i “nemici” stavano preparando. Un esempio di come i Servizi possano contemporaneamente non possedere le giuste informazioni e dare anche suggerimenti sbagliati al proprio governo lo si è visto nell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. In quel caso noi non sappiamo se la colpa maggiore fosse dello FSB o del GRU ma nessuno dei due “servizi” seppe comunicare al Cremlino la quantità e il tipo di armi che la NATO aveva già consegnato all’Ucraina. Inoltre, qualcuno di loro rassicurò Mosca che, appena iniziata l’invasione, una ribellione di palazzo avrebbe costretto il governo di Kiev a dimettersi lasciando spazio a chi avrebbe negoziato la resa. Come si è visto si trattava di una pura illusione dovuta a una serie di informazioni mancanti o sbagliate.

Gli errori degli occidentali.
Non che noi occidentali si stia molto meglio: un esempio eclatante e relativamente recente di scelte non lungimiranti lo si è visto nella decisione americana di attaccare l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003. Nel 2001 l’intervento della NATO (convalidato dall’ONU dopo l’invasione irachena del Kuwait) liberò il Paese occupato ma si fermò subito dopo per non mettere a rischio il potere centrale di Bagdad e causare il disfacimento di quello Stato. Nel 2003, questa volta senza l’approvazione dell’Onu e dopo aver inventato ragioni inesistenti, si decise di continuare sino all’eliminazione di Saddam Hussein. Ufficialmente lo si fece per “portare la democrazia” in Medio Oriente. Risultato: l’Iraq è oggi un Paese semi anarchico, quasi fallito, dove i poteri tribali e la corruzione imperano ovunque. Ancora peggio: mentre il nemico dichiarato dall’occidente era da tempo il confinante Iran, eliminando il suo solo competitor e cioè il potere inizialmente laico del dittatore Hussein si è consegnata tutta quell’area proprio nelle mani di Teheran, che ora vi spadroneggia.
I vari governi europei commettono spesso gli stessi errori, aggravati dal fatto che in molte scelte sono condizionati dai “suggerimenti” che arrivano da oltreoceano. Quando, alla fine degli anni 80, cadde l’Unione Sovietica sembrò la chiusura di un’epoca pericolosa e l’aprirsi di un futuro di pace e di benessere diffuso. Il pericolo dell’invasione comunista dell’Europa libera era svanito. Con la fine della guerra fredda le prospettive sembravano rosee per tutto l’Occidente, tanto è vero che qualcuno pensò perfino che l’esistenza della Nato fosse diventata superflua. Non solo Mosca non rappresentava più il pericoloso nemico, ma la ricchezza di materie prime di ogni genere presenti in Russia e, contemporaneamente, il suo bisogno di know-how e di finanziamenti lasciavano presagire un futuro virtuoso in cui sia noi europei che i russi avremmo tratto solo un mutuo profitto. Per l’Europa salvaguardare l’amicizia con gli Stati Uniti e gli scambi commerciali d’oltreoceano non impediva la possibilità di fungere da ponte virtuoso tra l’occidente e l’Eurasia. Tale soluzione sembrava ancor più necessaria visto che più a est stava crescendo un Paese che i lungimiranti intravedevano come il vero competitor economico e politico per il futuro: la Cina.
Purtroppo ciò che sembrava una prospettiva ottimale per tutti, noi e gli americani, non rientrava nei piani di qualcuno tra i centri di potere di Washington. Ai loro occhi una Europa senza il timore della potenza di Mosca e della sua potenziale aggressività non avrebbe più sentito il bisogno di stringersi agli Stati Uniti e ciò avrebbe significato la fine, o almeno l’inizio della fine, dell’egemonia americana sul nostro continente. È dall’inizio del Novecento, come sostengono anche vari politologi americani, che la politica estera a stelle e strisce verso l’Europa avesse come principale obiettivo l’impedire che nel nostro continente nascesse un qualunque Stato che potesse insidiare l’egemonia anglo americana. Per evitarlo bisognava assolutamente impedire che la forza economica della Germania si incontrasse positivamente con le potenzialità materiali offerte dalla Russia. La rivoluzione sovietica ridusse temporaneamente quel rischio e la guerra fredda consolidò per circa cinquant’anni l’impossibilità che avvenisse. Tuttavia, caduta l’URSS, negli USA si ricominciò a temere che la Germania (e ora tutta l’Europa) riuscisse ad emanciparsi dalla tutela d’oltreoceano. Inoltre, altri gruppi di potere a stelle e strisce pensavano che non sarebbe stato male ridurre anche la Russia, così grande e così ricca di materie prime, in uno stato di vassallaggio come già lo erano tanti altri paesi nel mondo. Ci provarono. Gruppi finanziari ed energetici americani negli anni novanta godettero della situazione di confusione e dei desideri secessionisti di alcuni di quegli Stati che componevano la Federazione Russa e, ove possibile, vi contribuirono. Occorreva, da un lato, impedire la strada di avvicinamento tra Mosca e le capitali europee e, dall’altro, assicurarsi che il futuro sviluppo russo fosse controllabile da Washington. Il primo atto in questa direzione fu la guerra contro la Serbia, tradizionale alleato/vassallo di Mosca. Pur con la disapprovazione iniziale dell’Onu si coinvolse la Nato (dopo averla trasformata da organizzazione puramente difensiva in portabandiera dell’espansione delle democrazie e dei diritti umani) e si inventò un inesistente genocidio del popolo kossovaro per giustificare i bombardamenti a tappeto su tutte le città e le infrastrutture serbe. In questo caso l’obiettivo auspicato fu presto raggiunto: si inventò lo Stato kossovaro e in quel piccolo Paese fu creata la più grande base militare americana del nostro continente. Il suo nome? Bondsteel. Guarda caso, si trova in una posizione geografica ottimale da dove si può tenere la Russia sotto tiro e, contemporaneamente, stare in Europa senza dover negoziare alcunché con i vari governi europei.

Usa contro Russia.
Approfittando della confusione politica a Mosca e della debolezza del potere politico centrale, alcune multinazionali americane cominciarono ad impadronirsi di aziende russe anche di importanza strategica e lo fecero molte volte con la complicità di corrotti oligarchi locali. Il sistema continuò fino a quando qualcuno dei “nuovi ricchi” russi, timoroso di soccombere allo strapotere dei loro colleghi americani e britannici, pensò di doversi emancipare e che, per farlo, fosse utile rinforzare un po’ il potere centrale per esserne meglio tutelati. A quel punto quegli oligarchi commisero però l’errore di suggerire a Eltsin la persona sbagliata (per i loro interessi): Vladimir Putin. Invece di essere semplicemente una longa manus dei vari Berezovski di turno, costui, ex dirigente del fu KGB, prese sul serio il suo ruolo e, dopo aver eliminato uno per uno gli oligarchi che lo avevano insediato, cominciò a creare una cerchia di nuovi tycoon a lui fedeli. Nostalgico del passato imperiale del suo paese, si mise in testa di far riottenere alla Russia un ruolo internazionale che potesse ricordare almeno un po’ quello che fu prima della Russia zarista e poi dell’Unione Sovietica. Potrebbe darsi che, all’inizio, pensasse di riuscire a farlo con l’assenso sia di americani che di europei, tanto è vero che cercò di convincere gli uni e gli altri della nascita di una nuova Russia buona, amica e collaborativa. In numerose occasioni si offrì quale utile alleato, collaborando alle lotte contro il terrorismo e arrivando alla storica firma del Trattato di collaborazione con la NATO ospitato da Berlusconi a Pratica di Mare. Ovviamente mai gli americani, convinti di essere rimasti l’unica super-potenza mondiale, avrebbero accettato di condividere alla pari con Mosca il potere che avevano sulla NATO e sul mondo in generale ma una qualche forma di collaborazione sembrò per qualche tempo possibile. Non tutti a Washington erano però d’accordo a percorrere questa strada e Putin fu costretto a capirlo quando in vari Stati dell’ex Unione Sovietica, che i russi credevano di tenere legati a sé attraverso la CIS, cominciarono a manifestarsi quelle che furono chiamate “rivoluzioni colorate”. Da quel momento, la politica di Putin divenne più guardinga e a volte persino aggressiva. La collaborazione in buona fede da entrambe le parti, se mai fosse esistita, sparì ben presto: gli americani cominciarono a scoprire maggiormente le loro carte e i russi a reagire colpo su colpo. Una evidenza di questo atteggiamento ostile fu la pressione esercitata da Washington per ottenere l’affossamento del progetto del nuovo gasdotto South Stream (che avrebbe tanto beneficiato l’Italia) e la dichiarata contrarietà verso la realizzazione del North Stream I. Inaccettabile, come dimostrano le varie dichiarazioni pubbliche di alti politici americani fu l’idea di un possibile raddoppio di quel gasdotto: il North Stream II. Verso la Germania furono lanciati degli avvertimenti inequivocabili quali lo scandalo dei motori diesel delle auto tedesche, la multa miliardaria alla Deutsche Bank e via di questo passo. I tedeschi, seppur renitenti, capirono e si adeguarono. Per togliere ogni dubbio, se a Berlino qualcuno ancora non aveva capito, i due gasdotti furono sabotati irrimediabilmente.

La strategia statunitense.
In linea con questa strategia, già negli anni ’90 politologi influenti come Brzezinski e organizzazioni paragovernative come la Rand Corporation (legata al Pentagono) avevano evidenziato come per “controllare” la Russia (fu usato il termine “contenimento”) occorresse assicurarsi “l’amicizia” dell’Ucraina. Decine di ONG statunitensi subito dopo la fine dell’URSS cominciarono a formare politici (e futuri politici) ucraini alla “democrazia” invitando molti di loro a lunghi stages gratuiti negli States (lo stesso si fa da molti anni anche con diversi politici europei, passati e attuali) acquisendone facilmente la fedeltà. Nel 2006 ci fu la prima operazione che portò a un reale cambiamento degli equilibri politici in Ucraina riuscendo ad invalidare una elezione che aveva portato al potere il filorusso Yanukovich. Il governo uscito dalle nuove elezioni si dichiarò immediatamente filo-occidentale e pro Nato ma non riuscì a mantenere a lungo il potere tant’è che, nel 2010, Yanukovich rivinse in una consultazione elettorale giudicata corretta dall’OSCE. Nel frattempo era nato, dietro volontà polacca baltica e svedese subito fatta propria dalla UE, il progetto Eastern Partnership che mirava ad avvicinare politicamente ed economicamente diversi Stati post sovietici all’Europa, e quindi all’occidente. Si trattava di: Moldavia, Bielorussia, Georgia, Armenia e, ovviamente, Ucraina. Tutto ciò che accadde a partire dal colpo di Stato di piazza Maidan nel 2014, dalle politiche anti-russe dei governi di Kiev ispirati dagli stessi americani che ne indicarono i ministri principali, dalle reazioni russe in Crimea e in Donbass fino all’invasione del febbraio 2022 è storia recente e conosciuta. Chi è interessato ad approfondirla senza lasciarsi influenzare dalla propaganda propinata da telegiornali e mass media mainstream del tutto allineati al solo punto di vista “occidentale” potrebbe farlo facilmente su internet o recuperando miei precedenti articoli su tali argomenti.

La reazione russa.
Già in passato l’allargamento della nuova NATO a Paesi che avevano fatto parte del Patto di Varsavia non era piaciuto a Mosca, ma ancor meno piacque che tale allargamento includesse anche gli Stati Baltici che erano stati parte della stessa Unione Sovietica. L’idea che tale operazione non finisse lì ma mirasse a conglobare nell’orbita americana anche Georgia, Moldavia e, soprattutto, l’Ucraina fu interpretato come un atto apertamente ostile contro la Russia e Putin non tardò a dichiararlo pubblicamente in ogni incontro multilaterale e bilaterale. In particolare, il problema visto da Mosca stava nel fatto che l’Ucraina era stata (almeno in parte) russa nel corso dei secoli e che la tradizione voleva che Kiev fosse stata la culla della futura Russia. Di là dai ragionamenti storici (le narrative storiche, lo si è visto di frequente, sono piegate secondo le convenienze da chi controlla il presente), la reale preoccupazione di Mosca era che una Ucraina nella NATO avrebbe significato avere un potenziale nemico alla porta di casa e il venir meno di uno “Stato cuscinetto” considerato indispensabile per la sicurezza della Russia. Ciò che in Occidente non si è capito, o si è finto di non capire, è che non solo Putin bensì la Russia tutta considera totalmente inaccettabile avere l’Ucraina come nemico o pure soltanto come avanguardia del nemico. Chi sostiene oggi che i russi vogliano “occupare” l’Ucraina per “assorbirla nella Federazione è in malafede o vittima della nostra propaganda. La Russia è il più grande Stato del mondo e non ha bisogno di nuovi territori. A Mosca basterebbe una Ucraina neutrale come furono la Svezia, l’Austria e la Finlandia e che le popolazioni russe dell’Ucraina non siano costrette a rinnegare le proprie origini e la propria cultura. A questo proposito basterebbe vedere gli accordi sottoscritti a suo tempo a Minsk nel 2014 o quelli, poi abortiti per volontà ucraina, a Istanbul nel marzo 2022. Certamente, poiché dai tempi sovietici le due economie sono intrecciate, una Ucraina non occidentalizzata subirebbe l’egemonia russa, ma non più di quanto alcuni Paesi occidentali subiscono quella americana.

Altri errori di valutazione.
Anche se negli Stati Uniti alcuni politologi e commentatori indipendenti avevano da anni messo in guardia i governi che si sono succeduti dal non “provocare” inutilmente Mosca e prestare invece maggiore attenzione al pericolo per l’egemonia mondiale americana che stava arrivando dalla Cina, i vari gruppi di potere e gli interessi finanziari hanno fatto orecchie da mercante. Il primo errore di costoro stette nel considerare, in buona o malafede, che lo sviluppo economico della Cina avrebbe obbligato quel Paese a “democratizzarsi” e quindi ad accettare, di conseguenza, i valori propri dell’Occidente confermando gli Stati Uniti come guida naturale nel mondo del futuro. Il secondo errore, oggi ancor più gravido di conseguenze, fu immaginare che ridimensionare le ambizioni russe fino all’umiliazione avrebbe aperto la strada americana a tutto il centro-Asia e quindi, se necessario, usare quelle posizioni per tenere la Cina sotto controllo.
Una illusione molto diffusa tra gli osservatori europei e d’oltreoceano (altro errore!) era allora che la storica diffidenza tra russi e cinesi avrebbe impedito, qualunque fossero stati gli avvenimenti, un vero avvicinamento tra i due Paesi. Negli anni sessanta era perfino scoppiata una guerra tra i due per una questione di confine nella zona del fiume Amur e la questione, seppur assopita, non sembrava definitivamente chiusa. È vero che da quegli anni ci furono molti progetti di collaborazione, ma l’esempio delle difficoltà nei loro rapporti era il prorogarsi senza soluzioni in vista dell’accordo su un possibile gasdotto che avrebbe dovuto collegare i giacimenti siberiani con la terra del Dragone. Se ne parlava da anni ma nessuna intesa era stata raggiunta e niente lasciava pensare che il progetto potesse davvero realizzarsi.
Ancora nel marzo 2023 il Segretario di Stato Blinken parlando al Senato americano disse che l’avvicinamento tra Russia e Cina fosse solo “un matrimonio di convenienza” non destinato a durare. Una seconda illusione nutrita in Occidente fu che l’economia russa fosse poco efficiente perché basata soltanto sulla vendita di materie prime e che qualche sanzione che ne colpisse la commercializzazione avrebbe messo in ginocchio il bilancio statale di Mosca. Già prima del 2014, e cioè prima dell’annessione della Crimea alla Russia, gli Usa avevano fatto pressioni sull’Europa affinché smettesse di comprarne il gas e la Commissione aveva preparato un piano energetico pensato per disimpegnarsi da quel fornitore. Da allora fu un crescendo e oggi sono in vigore diverse centinaia di sanzioni che colpiscono aziende, prodotti e cittadini russi e si è impedito l’uso dello swift alle banche russe per limitarne gli scambi internazionali. Si sono bloccati tutti i collegamenti aerei diretti e si è reso impossibile agli aerei russi il sorvolo dei cieli dei Paesi aderenti alle pratiche sanzionatorie. Ciliegina sulla torta, sono stati “congelati” tutti i beni, anche dei privati, che i russi detenevano in Europa, negli Stati Uniti e ovunque fossero identificabili. A Washington e a Bruxelles si immaginò che nel giro di poche settimane Mosca sarebbe stata senza soldi e costretta, di conseguenza, a mancare dei mezzi necessari per finanziare la guerra. Infine, si presumeva che la stanchezza della guerra, la scarsità di risorse e i fallimenti dell’intelligence avrebbero stimolato l’insoddisfazione pubblica, i conflitti interni tra le élite e la disillusione nei confronti di Putin.

Rapporti Cina – Russia.
Che i rapporti storici tra russi e cinesi non fossero stati mai ottimali era una verità e che tra i due chi oggi avrebbe avuto il coltello dalla parte del manico fossero i cinesi era altrettanto chiaro. Io stesso, presente a Mosca nel 2010 per una conferenza cui partecipava anche il grande Kissinger (invitato per ricevere una onorificenza russa), sentii il grande diplomatico americano avvertire i russi che si guardassero da un rapporto troppo stretto con Pechino poiché tra i due essi sarebbero stati solo un “partner minore”. Seppur a Mosca siano ben coscienti che il loro legame con i cinesi non è, né mai sarà, su un piano di parità e a Pechino si stia attenti a non rompere drasticamente con gli USA per salvaguardare almeno qualcosa dei rapporti economici reciproci, la relazione tra le due capitali è la migliore dagli anni ’50. Il Cremlino non è cieco davanti alla sua debolezza nei confronti del vicino ma, grazie a noi che ve lo abbiamo costretto, sa di non avere scelta e cercherà di fare in modo che il vassallaggio alla Cina non costituisca mai una subordinazione piena e incondizionata. Le visite recenti di Putin in Corea del Nord e in Vietnam lo dimostrano (per chi capisce di politica internazionale). Nonostante queste “prudenze” reciproche, nel febbraio 2022 il rapporto russo-cinese fu dichiarato da entrambi come “una partnership senza limiti” e il numero degli incontri tra i due leader da quando sono al potere è già arrivato a 42, alternativamente a Mosca e a Pechino. Nel 2023 il commercio bilaterale ha raggiunto la cifra record di 240 miliardi di dollari con un aumento del 60% rispetto al 2021 e oggi la Cina rappresenta il 30% delle esportazioni russe e il 40% delle sue importazioni. Prima delle sanzioni il commercio russo con l’Europa era il doppio di quello con la Cina, ora è meno della metà. La Cina ha importato circa 130 miliardi di dollari in gas, petrolio, carbone, gas liquefatto, metalli, uranio, prodotti agricoli e legno. In cambio i russi hanno ricevuto beni industriali, automobili, elettronica e vari beni di consumo. Dal punto di vista militare, nonostante non si sia formalizzato un accordo stretto, nel settembre 2022 fu svolta una esercitazione strategica congiunta che vide la partecipazione di 2000 soldati cinesi. Nel dicembre dello stesso anno ci furono tre cicli di esercitazioni navali comuni e nel 2023 quattro pattugliamenti aerei in Asia con bombardieri nucleari. Anche l’opinione pubblica ha modificato il suo modo di vedere i “gialli”: alla fine del 2023 ben l’85% dei russi giudicava “positivamente” la Cina e tre quarti della popolazione non crede che la Cina possa per loro rappresentare alcun pericolo. Gli editori russi non traducono quasi più i libri dei contemporanei occidentali ed aumentano le traduzioni di opere di autori cinesi. I membri dell’élite russa stanno sempre più cercando tutor in lingua mandarina per i propri figli e le università straniere più frequentate han cominciato a essere quella di Hong Kong o della Cina continentale. Ben 12.000 giovani studenti russi hanno scelto di studiare lì dopo la pandemia e cinque voli al giorno collegano Mosca e Pechino per poco meno di 500 dollari. La percentuale della domanda di lavoratori che parlano cinese nell’ultimo anno è aumentata del 63% secondo la società russa di ricerca del personale Super Job. Benché noi si parli di dollari per meglio intenderci, gli scambi tra i due Paesi si svolgono ora solo in rubli e yuan e quest’ultima è oggi la valuta più trattata alla borsa di Mosca. Davanti alla possibilità che il dominio americano sui pagamenti internazionali possa un domani nuocere anche a loro, negli scambi bilaterali sempre più Paesi accettano di usare lo yuan nei rapporti bilaterali al posto del dollaro. Tra costoro: l’Arabia Saudita, l’Argentina, il Brasile, il Pakistan, il Bangladesh, l’Iraq, l’Iran e la Tailandia. La Russia, inoltre, possiede una grande eccedenza di rupie indiane e le sta usando per investire in progetti infrastrutturali in India. Certamente l’abbandono del dollaro come maggior valuta per i pagamenti internazionali richiederà molti anni e non è detto che riesca mai completamente, ma il suo uso è in costante diminuzione. Nel novembre 2023 la quota di yuan nel commercio transfrontaliero era cresciuta nel mondo sino al 4,61% cominciando a insidiare l’euro e lo yen. Un numero sempre crescente di russi, una volta innamorati dell’Europa e della sua cultura oggi provano amarezza, se non ostilità, verso il nostro continente incolpandoci per la nostra adesione alle sanzioni punitive americane e per sostenere la guerra dell’Ucraina contro di loro. Anche se occorreranno decenni o più per sostituire la cultura occidentale come punto di riferimento, tra gli intellettuali russi l’interesse verso culture alternative è in forte crescita.
Dal punto di vista cinese si vede la Russia come una parte fondamentale per il riallineamento geopolitico e la possibilità di avere forniture di materie prime in grandi quantità senza dover dipendere da rotte marittime vulnerabili come lo stretto di Malacca è giudicato un asset strategico. Mosca, inoltre, è importante per favorire l’uso internazionale dello Yuan e diminuire la dominanza mondiale del dollaro e del suo sistema di pagamenti, lo swift.

Le economie russa ed europea.
Per quanto riguarda le attese di un crollo dell’economia russa causata dalle sanzioni occidentali, nessuna speranza mai fu più disattesa. Più di 100 Paesi nel mondo non hanno alcuna intenzione di applicare le sanzioni euro-americane e Paesi come l’India, il Brasile o la Turchia stanno addirittura approfittandone per far esplodere i volumi delle loro esportazioni. L’alta tecnologia che noi occidentali ci siamo astenuti dal fornire è oggi in arrivo soprattutto dalla Cina mentre i beni di consumo arrivano da tutto il mondo. Contemporaneamente, le aziende russe hanno cominciato a produrre in proprio molti di quei generi che prima venivano importati e il PIL russo sta crescendo ogni anno a tassi superiori a quelli europei.
In compenso noi europei importiamo più gas dai certamente non democratici Azerbaigian e Qatar ma soprattutto dagli Stati Uniti. Dal momento dell’introduzione delle sanzioni contro la Russia, l’Unione Europea ha pagato quasi 200 miliardi di euro in eccesso per l’acquisto di gas naturale mentre, al contrario, gli USA hanno guadagnato ulteriori 53 miliardi di euro fornendo il loro gas liquefatto che è più costoso.
Le nostre economie stanno soffrendo anche per una sconsiderata (e soprattutto ideologica) logica “green” (1) e i soldi che stiamo dando direttamente e indirettamente all’Ucraina sono sottratti ai bilanci interni di ogni Stato membro della UE. I cittadini europei non sono informati su quanto denaro, in realtà, se ne va per sostenere quel Paese in guerra ma qualche cifra (parziale) siamo in grado di conoscerla. Dopo tutto quello che si è regalato a Kiev negli anni passati, Bruxelles ha concordato all’inizio di quest’anno di stanziare ulteriori 33 miliardi di euro in prestiti (che tutti sanno non potranno mai essere restituiti) e 17 miliardi in sovvenzioni a fondo perduto nell’ambito del programma Ukraine Facility. Da questo programma Kiev ha già ricevuto due tranche di pre-finanziamento: 4,5 miliardi a marzo, 1,5 miliardi ad aprile e 1,9 miliardi entro fine giugno. Altri seicento milioni arrivano dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e dalla Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa (altri 100 milioni di euro). Tutto ciò senza contare i costi che gli Stati europei sopportano per ospitare e mantenere i milioni di profughi ucraini in fuga dalla guerra e dalla coscrizione obbligatoria. In aggiunta, occorrerebbe calcolare anche quanto costa la manutenzione di edifici e barche sequestrate agli oligarchi russi in Europa e, vista l’incertezza giuridica che riguarda tali “congelamenti” le eventuali penali che, una volta finite le ostilità ufficiali, i vari tribunali potrebbero imporre di pagare alle “vittime” di tale aberrazione giuridica. Recentemente, su pressioni americane e in spregio al diritto internazionale, l’Europa ha deciso che saranno sequestrati, per trasformarli in armi da inviare in Ucraina, gli interessi sui beni finanziari congelati ai russi: a luglio 1,5 miliardi per arrivare ai 3 miliardi entro fine anno.

L’Ucraina nell’Ue?
Vogliamo poi pensare a cosa accadrebbe se davvero, come vogliono i vari governi europei ubbidienti a chi è più potente, dovessimo fare entrare l’Ucraina (o ciò che ne resterà) nell’Unione Europea? Lascio a chi legge immaginare quanti miliardi serviranno non solo per la ricostruzione ma anche per adeguare le istituzioni e le leggi agli “acquis” europei e a quanto sarà fatto sparire dalla corruzione endemica in quel paese. Inoltre: cosa ne sarà degli agricoltori nostrani costretti ad una concorrenza impari con le produzioni agricole ucraine? E saremo noi consumatori europei pronti a ricevere prodotti contaminati dalle polveri sottili e invisibili entrate nel ciclo agricolo produttivo perché dispersivi da tutte le bombe ad uranio impoverito (non radioattivo ma velenosissimo) usate nei vari campi di battaglia? Con circa 35/40 milioni di abitanti, l’Ucraina diventerebbe il quinto Stato membro dell’Unione e ciò solleverebbe significative implicazioni per gli equilibri politici interni. Secondo alcuni studiosi europei di economia l’integrazione di un Paese già povero e ora totalmente distrutto costerebbe alle casse di Bruxelles (e quindi anche alle nostre) “una cifra orrenda” che andrà a scapito dei fondi destinati ai Paesi attualmente beneficiari netti quali Polonia, Ungheria, Romania e Grecia. Resisterà l’unità tra i Paesi europei? Sarà anche inevitabile mettere in conto enormi flussi migratori in uscita dall’Ucraina, anche se questo è forse l’unico aspetto parzialmente positivo della questione. Si tratterebbe, comunque, di potenziali lavoratori qualificati, facilmente integrabili poiché provenienti da una cultura non troppo dissimile dalla nostra.
Davanti a queste evidenze e a questi scenari è difficile continuare a credere che chi ci governa in Europa sappia davvero quello che fa e ne abbia previste le conseguenze. Purtroppo, siamo costretti a prendere atto di una delle due ipotesi possibili. La prima: è in atto un vero e proprio piano da oltreoceano per distruggere le economie europee e i nostri politici non se ne sono accorti. La seconda: la gran parte dei vertici dirigenti a Bruxelles e nelle varie nostre capitali o è totalmente rimbecillita o si è venduta ad altri interessi.

Note:
1 – La professoressa Jessica Green dell’Università di Toronto ha calcolato che i soli incendi della passata estate in Canada hanno rilasciato due miliardi di tonnellate di anidride carbonica, pari a quattro volte le emissioni annuali totali del Paese. Se aggiungiamo, tra le tante manifestazioni naturali di tipo vulcanico, le emissioni di CO2 emesse nei Campli Flegrei poche settimane orsono che corrispondevano a migliaia di tonnellate giornaliere, farne il paragone con quanto si risparmierebbe riducendo a zero le emissioni dei motori a combustione diventa sconsolante.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.