Mali. Jihadisti all’attacco, lo Stato arretra

di Giuseppe Gagliano

In un silenzio internazionale che rasenta l’indifferenza, il Mali continua a sprofondare nel caos. Gli ultimi due attacchi jihadisti contro le postazioni militari di Mahou e Tessit, al confine con Burkina Faso e Niger, segnano l’ennesimo capitolo di una guerra ormai sistemica. A colpire, ancora una volta, sono stati i combattenti del gruppo Jamaa Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin (JNIM), legati ad al-Qaeda. Un’organizzazione ormai padrona del territorio, capace non solo di assaltare basi militari, ma di imporsi anche come attore politico e sociale in aree dove lo Stato è pura finzione.
Nonostante l’invio di rinforzi da parte delle forze maliane, l’attacco a Tessit ha avuto esiti devastanti. Le truppe hanno ceduto il controllo del campo, la popolazione civile è fuggita, e le autorità locali parlano apertamente di un territorio “perso”. La giunta militare, insediatasi dopo i colpi di Stato del 2020 e del 2021, aveva promesso ordine e sicurezza. Ma a quattro anni di distanza, il Mali appare più vulnerabile che mai.
L’offensiva jihadista non è un episodio isolato. Solo il 1 giugno, un attacco a Boulkessi, nel centro del Mali, ha causato la morte di decine di militari. JNIM ha rivendicato oltre 100 vittime tra soldati e “mercenari”, oltre a venti prigionieri. Due giorni dopo, il gruppo ha affermato di aver colpito un aeroporto militare a Timbuktu e di aver bombardato forze maliane e russe nei pressi di Bamako.
Le autorità non hanno confermato l’episodio, ma la società di consulenza Control Risks ha giudicato “credibili” queste rivendicazioni. Un’allerta che conferma il rischio di attacchi anche nella capitale, e soprattutto il progressivo sfaldamento del dispositivo militare nazionale, che fatica a difendere anche le sue installazioni più strategiche.
Dal 2022, la giunta maliana ha interrotto ogni collaborazione con la Francia e con le missioni ONU, scegliendo di affidarsi al sostegno della Russia e del gruppo Wagner. La MINUSMA ha già lasciato il Paese, mentre le forze speciali francesi sono state cacciate dopo anni di interventi mirati contro le milizie jihadiste. Un cambiamento che ha ridisegnato la mappa delle alleanze ma non ha migliorato la sicurezza sul campo.
Anzi, secondo fonti ONU l’ISIS ha quasi raddoppiato la propria presenza in Mali tra il 2023 e il 2024. La lotta tra jihadisti rivali (al-Qaeda contro lo Stato Islamico) si sovrappone a quella tra esercito e insorti, generando una guerra civile frammentata, confusa, senza confini chiari né interlocutori stabili.
Il ritiro occidentale, accelerato dall’allineamento del Mali con Mosca, ha lasciato un vuoto colmato dalla violenza. I regimi militari di Mali, Burkina Faso e Niger – tutti insediatisi con golpe tra il 2020 e il 2023 – hanno giustificato la presa del potere con l’incapacità dei governi civili di affrontare l’insurrezione islamista. Ma dopo anni di governo diretto, le promesse di ordine sono rimaste lettera morta.
Nel frattempo, la popolazione civile continua a pagare il prezzo più alto: villaggi svuotati, scuole chiuse, sfollati in fuga, economie locali distrutte. La retorica sovranista e anticoloniale della giunta – utile per legittimarsi all’interno – si scontra con la realtà di uno Stato che non controlla più nemmeno i propri confini.
Mentre le cancellerie europee guardano altrove, il Sahel si conferma uno dei principali epicentri della destabilizzazione africana. Una regione abbandonata, dove jihadismo, militarizzazione e geopolitica delle influenze (Russia contro Occidente) si intrecciano in modo sempre più tossico.
La crisi maliana è ormai una questione continentale, che riguarda la sicurezza dell’intero Africa occidentale, l’equilibrio tra attori globali e il futuro di milioni di persone. Ma per ora, l’unica cosa che cresce è l’elenco dei morti. E il silenzio complice di chi potrebbe intervenire, ma ha deciso di voltarsi dall’altra parte.