a cura di Gianluca Vivacqua –
Qualche mese fa parlavamo con il professor Fulvio Bertuccelli dell’università di Bologna delle forme di governo e delle loro degenerazioni. Per completare il discorso, affrontiamo adesso il tema del populismo, che sembra essere un’altra corruzione della democrazia. Ha qualcosa che ha a che fare con la demagogia: probabilmente parte da essa ed è un suo ulteriore perfezionamento. Diamo spazio all’ampia analisi sul tema del professor Yves Meny, politologo di lungo corso già in forza alla Sciences Po di Parigi, alla New York University e alla Washington University, solo per citare alcuni degli atenei presso cui ha insegnato. Nel suo curriculum anche la presidenza dell’Istituto Universitario Europeo e quella del consiglio d’amministrazione della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. In materia di populismo il prof. Meny ha pubblicato “Populismo e democrazia”, in collaborazione con Yves Surel (Fayard, 2000, e poi il Mulino, 2001) e “Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico” (il Mulino, 2019).
– Professor Meny, sembra che il populismo, specie se si guarda all’Europa attuale, sia in genere l’anticamera dell’affermazione o della riaffermazione delle destre. Il populismo ha quindi una certa prossimità con la destra piuttosto che con la sinistra? O dipende piuttosto dalla “caratura”, per così dire, del leader che parla alla pancia delle masse? Mi spiego meglio: c’è un modello-Masaniello di sinistra contrapposto a un modello-Perón di destra?
“La maggior parte dei populismi nasce da una protesta settoriale o con degli obiettivi abbastanza limitati: le tasse, i rapporti con popolazioni straniere, la difesa di un particolarismo regionale etc. L’assenza di una ideologia ben definita permette di rastrellare strati di “followers” venuti da tutti gli orizzonti politici e da tutti i ceti sociali. Quest’assenza di ideologia è, all’inizio, motivo d’orgoglio da parte dei populisti: rifiutano i partiti, le loro ideologie e programmi. Pretendono di parlare in nome del popolo contro le élite politiche o tecnocratiche, escludono le scelte di parte e l’ideologia è sostituita dal cosiddetto «buon senso». L’archetipo in senso caricaturale di questo fenomeno mi sembra ben illustrato dal movimento dei Gilets Jaunes in Francia; nessun programma, nessun leader o portavoce, nessuna ideologia riconosciuta come tale. In un certo modo un populismo allo stato puro, la quintessenza di un movimento di protesta che muore appena nato, vittima del rifiuto di quello che fa vivere un’istituzione anche per secoli: cioè un’ideologia appunto, un’organizzazione, un apparato diretto da un capo. Il rifiuto di queste esigenze minimali è la ricetta quasi certa per il fallimento.
A questo punto, due vie si offrono per evitare il crollo della domanda di un’alternativa ai partiti tradizionali: la prima è la trasformazione del movimento single-issue (cioè che si costituisce per propugnare una data causa) in un “partito” a scopo universalistico anche se generalmente si rifiuta di utilizzare questo vocabolo (da notare che in Italia, per esempio, fra tutte le formazioni in competizione per le elezioni europee, una sola usa la denominazione «partito», il PD). Di questo processo in Italia abbiamo avuto tre esempi molto diversi tra loro ma accomunati dalla stessa evoluzione per durare e inserirsi nei meccanismi della democrazia rappresentativa. Parliamo della Lega Nord, di Forza Italia e dei Cinque Stelle. L’altra via è la captazione delle tematiche e delle rivendicazioni populiste da parte di un partito preesistente che “surfa”, così, sull’onda populista. Uno specimen affascinante di questo percorso è offerto dall’ex Front National, nato come partito quasi-fascista nelle mani di Le Pen per poi trasformarsi in modo sostanziale in una cassa di risonanza delle proteste di un elettorato frustrato, sia di destra – coerentemente con la sua collocazione naturale nella destra radicale – sia di sinistra, finendo in tal modo per attrarre un elettorato popolare fino a quel momento appartenuto ai partiti socialista e soprattutto comunista. Quest’ultimo, in Francia, per 50 anni aveva detenuto quella che fu chiamata «la fonction tribunitienne», la funzione di tribuno del popolo. La seduzione dell’elettorato popolare che votava a sinistra più per ragioni economiche che ideologiche è stata fatta principalmente sul terreno della questione migratoria, la cui soluzione nella pratica è stata lasciata alla destra, preferendo la sinistra riempirsi la bocca di valori umanitari e internazionalisti. Ma, nel concreto, era l’operaio costretto a misurarsi quotidianamente con la concorrenza sul mercato del lavoro e ad affrontare la convivenza interrazziale nelle banlieues a risentire del problema, proprio mentre le élite di sinistra difendevano la superiorità dei principi piuttosto che affrontare le situazioni reali di disagio.
Inizialmente, come abbiamo detto, la maggior parte dei movimenti populisti non si costituisce con un’ideologia precisa o sostanziosa. Prima di tutto si oppongono alle élites al potere (politico, bancario, economico) e hanno delle rivendicazioni settoriali. Un esempio emblematico è il movimento di Farage a favore del Brexit, sostenuto sia della destra più conservatrice sia dall’elettorato laburista dell’Inghilterra del Nord. La protesta fu più forte delle ideologie contrastanti dei partiti politici. Ma come spiegare che, partendo da una conchiglia vuota, i partiti populisti si sono orientati nella maggioranza dei casi verso la destra radicale?
Per capire questa convergenza o fusione, bisogna prendere in considerazione i punti di raccordo potenziali fra populisti e partiti radicali, il più spesso di destra, qualche volta di sinistra. Al centro del pantheon populista ci sono alcuni elementi essenziali: il popolo, concetto centrale e pilastro di ogni movimento populista, eventualmente la nazione in opposizione al forestiero, il disprezzo delle élites e, di conseguenza, la contestazione del principe rappresentativo. A questo si aggiunge il ruolo fondamentale del leader che ha creato il movimento e ha saputo cristallizzare intorno a sé il malessere diffuso di una parte della popolazione. Questo elemento è decisivo per dare al movimento un orientamento più di destra o di sinistra. Per esempio, i Cinque Stelle in Italia, Podemos in Spagna, la France insoumise in Francia e anche la Lega Nord furono fondati da personaggi che erano appartenuti a partiti di sinistra prima di lanciarsi nell’edificazione di un movimento autonomo. Ma i movimenti orientati a sinistra hanno più difficoltà a tenere insieme un elettorato abbastanza diversificato e soprattutto a superare la sfida dell’esercizio del potere. Senza parlare dell’evoluzione della leadership nel caso della Lega, di Cinque Stelle o di Podemos.
L’assorbimento dell’elettorato di destra si fa più facilmente perché le consonanze fra populismo e partiti di destra sono più forti e naturali. Populisti e destra radicale condividono la critica delle élites al potere, che siano di destra moderata o di sinistra; entrambi oppongono il popolo sano alle élites corrotte; entrambi sono ostili alla globalizzazione e alla sua espressione europea, l’U.E.; entrambi sono a favore di una politica di «Law and Order». I punti d’incontro sono numerosi e abbastanza facili da mettere in opera in una strategia di conquista del potere. Per i movimenti populisti che aspirano a governare diventa necessario prendere posizione sull’insieme dei problemi nazionali ed internazionali che potrebbero dover gestire in caso di vittoria. Il leader – che, di nuovo, gioca un ruolo fondamentale visto che, a differenza dei partiti, le masse populiste sono poco organizzate e strutturate – può scegliere di arricchire il bagaglio ideologico del movimento con il rischio però di perdere sul cammino una parte dei seguaci. Le lotte all’apice dei movimenti non mancano in collegamento con queste scelte “evolutive”, come testimoniano i casi dei Cinque Stelle in Italia, di Podemos in Spagna, dell’AFD in Germania. Il caso della Lega sotto la leadership di Salvini è quasi caricaturale. Non soltanto c’è uno slittamento a destra che fa disperare anche il fondatore Umberto Bossi, ma c’è il tentativo disperato di un leader senza bussola di sopravvivere, cercando di sfruttare tutti gli spostamenti d’umore della «pancia» popolare.
Il problema si pone in termini abbastanza diversi quando è un partito di estrema destra a cercare di conquistare il potere sfruttando le tematiche emergenti nell’opinione pubblica e di approfittare del crollo dei partiti di governo. Per capire questo scenario, bisogna tornare alla dimensione «populista» del partito comunista francese negli anni 50-70. Ovviamente, il PCF seguiva la linea dell’Unione sovietica ma, nella politica quotidiana, il principio era molto semplice: il popolo aveva sempre ragione e il governo torto qualunque fosse la natura del malcontento. La questione però era sempre presentata in termini ideologici affinché non apparisse che il partito andava al rimorchio degli umori delle masse. Oggi, la strategia del Rassemblement National sembra paragonabile a questa, e un primo segnale di questo “modellamento” lo si può scorgere nel cambiamento del nome del partito, che tiene ora a presentarsi in modo più moderato e consensuale: Rassemblement invece di Front, legato all’idea di lotta. Per attrarre gli elettori degli eredi del Général de Gaulle, Marine Le Pen (la leader incontestata del partito) ha giocato su diversi fronti. Prima ha fatto di tutto per smussare i punti più dolenti del programma elaborato da suo padre. Si proclama antisemita, ha visitato Israele, condanna il razzismo, pretende di incamminarsi sulle orme del Général (!), non parla più di Frexit o di ritorno al franco. Poi fa di tutto per apparire «responsabile» e comportarsi come un futuro capo dello Stato. La strategia è riuscita a pieno: l’ex partito gaullista, intrappolato fra l’attrazione per Macron e l’emorragia lepenista, è ridotto a poca cosa. Il partito dominante dal 1958 agli anni 2000 è poco più che l’ombra di se stesso…
La forza paradossale di tanti populismi è quella di riuscire ad attrarre elettori delusi sia da sinistra (con la quale condividono una cultura di protesta) sia da destra (con cui condividono valori comuni). Sono i partiti social-democratici (in Scandinavia, Francia, Italia) o comunisti che hanno sofferto di più e che fanno fatica a resistere all’onda populista. In un contesto generale di orientamento maggioritario verso la destra, anche i partiti di destra responsabili hanno però sofferto perdite non leggere e sono stati costretti, in molto casi, a collaborare con i populisti radicali diventati, nel frattempo, partiti della destra radicale”.
– Magari è possibile individuare due tipi di populismo: uno che tende a sobillare le masse e l’altro che tende a compiacerle? O sono due facce della stessa medaglia?
“Il populismo si definisce più a partire dalle sue fobie o ossessioni, nel momento dell’incontro con la democrazia rappresentativa, che dal suo contenuto proprio. Quello che accomuna tutti i populismi è facile da elencare: l’odio per le élites al potere, un atteggiamento di protesta nei loro confronti, la difesa dei valori popolari e nazionali ( America first, per Trump), l’odio per gli intellettuali, la rivendicazione del buon senso etc. Una caratteristica che non è mai rivendicata ma che l’analisi rende chiara è la volontà di sostituire nuove élite (anche se la parola è maledetta) a quelle al potere senza utilizzare le vie abituali dei partiti esistenti. Il primo risultato ovvio della spinta populista è l’accesso nelle stanze del potere di nuovi ceti sociali e di politici che non sono (ancora) professionisti della politica. Ma che lo diventano rapidamente. Gli esempi sono innumerevoli, da Salvini a Farage, da Le Pen a Wilders etc. Il caso più notevole è quello di Berlusconi che, una volta al potere, non cambia un granché ma riesce senza pari nella scommessa di essere in una volta sola capo del governo e leader dell’opposizione al sistema, criticando senza moderazione il sistema politico, i partiti, l’amministrazione fiscale, la burocrazia, i giudici ecc. Ma, contrariamente ai leader cosiddetti illiberali, Berlusconi non prova ad attaccare frontalmente le corti o i media (probabilmente perché aveva già un controllo sufficiente attraverso le sue TV o il quasi-monopolio del mercato pubblicitario).
Al di là di alcuni tratti generali, è difficile identificare caratteristiche dei populismi che possano farne una categoria (teorica) omogenea. L’Italia è un buon esempio di questa difficoltà: Forza Italia, la Lega, i Cinque Stelle sono tre forme di populismo ma sarebbe sbagliato farne un fascio unico. Ci sono così tante differenze tra loro quante sono le somiglianze.
Se si dovesse trovare un punto comune a tutti i populismi, questo sarebbe la centralità del leader che può imporre le sue scelte, i suoi uomini, le sue inversioni di marcia mai discusse o condivise con il «popolo» populista. L’unica eccezione apparente è costituita dal movimento Cinque Stelle, che non aveva un leader ed è stato costretto a pescare uno sconosciuto tecnico perché diventasse presidente del Consiglio. Aveva però un guru, Beppe Grillo che poteva fare brutto o bel tempo secondo le sue fantasie. Il suo “arcano potere” era fondato sulla tecnologia, Internet e la piattaforma Rousseau, ma si è vista la ridicola sbandata finale di questo pretensioso canale di controllo della democrazia popolare!
L’importanza della leadership si spiega alla luce di diverse cause: la prima è di ordine generale. Tutti i sistemi politici, anche quelli democratici, hanno bisogno e sempre di più di identificare un partito, una politica, un orientamento con una persona singola. È particolarmente vero nei sistemi presidenziali (USA, Francia, Paesi d’America latina) ma anche nei sistemi comunisti o ex-comunisti dove il potere personale dovrebbe essere bandito. Ma è anche sempre più vero nei sistemi parlamentari, come dimostra l’evoluzione del sistema italiano dove, per mancanza di riforma costituzionale, il linguaggio politico prova a seguire le evoluzioni del sistema (la Presidenza del Consiglio conta più di 4000 persone al suo servizio!). Si parla ormai di premierato e tutto spinge, malgrado la costituzione, a rafforzare la funzione di Primo Ministro. E come non osservare che la vittoria schiacciante di Fratelli d’Italia è legata alla forte personalità del suo leader Giorgia Meloni? Tolta Meloni, il partito si affloscia come un soufflé…
Al contrario, i partiti o movimenti che hanno perso il loro leader sono messi male: Il partito di Berlusconi, che all’apice della potenza aveva annesso quasi tutte le forze di destra e del centro soffre la perdita del suo leader carismatico come i Cinque Stelle, malgrado gli sforzi di Conte nel far credere che uno c’è. La Lega ne ha uno in partenza visto che anche Salvini fa di tutto per giocare all’uomo forte. Ma i suoi zig-zag continui, invece di far crescere il consenso intorno alla sua persona sono fonte di disorientamento. È un leader che perde pezzi di continuo.
Al di là di queste varie traversie rimane un dato fondamentale: l’uomo forte, il leader, conta più del movimento o del partito. È il leader che fa il partito e non il contrario come una volta. E la tendenza è ancora più forte e ovvia quando non c’è una struttura di partito solida come accade proprio nei movimenti populisti. Si potrebbe parafrasare l’osservazione di un cittadino di Parigi che nel 1799, alla domanda «Che c’è nella costituzione?», rispondeva «Napoleone!» Che c’è nel partito repubblicano americano? Trump. Che c’è nel partito FIDES al potere in Ungheria? Orban. Si potrebbe fare una litania di situazioni simili nel mondo, che siano democrazie o no.
A questo punto, questi nuovi movimenti populisti si confrontano con una sfida comune a tutti: come istituzionalizzare un fenomeno politico così strettamente identificato con il suo creatore/leader? Fu il problema di De Gaulle e dei suoi successori, che l’hanno superato con successo fino all’esaurirsi del secolo. È il problema di Macron ma il suo successo nel futuro è dubbioso perché non è riuscito a creare strutture che possano sopravvivere alla fine del suo mandato. Questa difficoltà, l’istituzionalizzazione di un fenomeno transitorio nel tempo, è una sfida particolarmente difficile per i populismi, visto che sono delle piramidi alla rovescia. Tutto parte e riposa sulla punta rappresentata dal leader. È per questo che la penetrazione ideologica della destra nei movimenti populisti è così importante. L’ideologia può diventare il sostituto del leader che per definizione è mortale. Lo vediamo con Forza Italia che sta piangendo il suo leader insostituibile, o la Lega che ha un leader che cerca disperatamente un corpus ideologico, passando dalla rivendicazione autonomistica a una strategia nazionale (fallita), dal disprezzo per i “terroni” all’odio per i migranti.
La chiave del successo e della durata dei populismi o del loro fallimento starà nel superare la sparizione del fondatore, diventando una forza capace di durare anche cambiando programmi o strategie se necessario. Ma l’impresa è difficile, molto difficile, e per due ragioni: l’eccesso di personalizzazione, che è un atout all’inizio, ma una debolezza nel lungo termine; e poi, la cultura della protesta che prepara male ai compromessi ineluttabili dell’esercizio del potere. Purtroppo, la via d’uscita che appare più vincente è l’adozione di un’ideologia di destra radicale per colmare il vuoto del populismo”.