di Giuseppe Gagliano –
La giunta militare del Myanmar ha compiuto un nuovo massacro nel villaggio di Kyauk Ni Maw, nella municipalità di Yanbye. L’attacco ha lasciato dietro di sé una scia di devastazione: circa 500 abitazioni ridotte in cenere e oltre 40 persone uccise, tra cui molti civili inermi. La notizia è stata denunciata dal Governo di unità nazionale birmano (NUG) e confermata da una dichiarazione delle Nazioni Unite, che ha espresso profonda preoccupazione per il crescente livello di violenza nel Paese.
Questa tragedia non rappresenta un evento isolato, ma l’ennesimo episodio di una guerra interna scatenata dalla giunta militare dopo il colpo di Stato del febbraio 2021, che ha rovesciato il governo democraticamente eletto di Aung San Suu Kyi. La giunta, guidata dal generale Min Aung Hlaing, ha represso con brutalità ogni forma di dissenso, scatenando una crisi umanitaria che ha messo in ginocchio l’intera popolazione.
L’attacco a Kyauk Ni Maw si inserisce in una strategia di repressione mirata, volta a spezzare il sostegno alle forze di resistenza, tra cui il governo di unità nazionale e le varie milizie etniche. Distruggere villaggi, terrorizzare la popolazione civile e soffocare le comunità ribelli sono strumenti sistematici di controllo adottati dalla giunta. Ma questo conflitto interno non si svolge in un vuoto geopolitico: il Myanmar è al centro di una rete di relazioni regionali che influenzano profondamente l’evoluzione della crisi.
Tra i principali attori esterni coinvolti c’è la Cina, che storicamente mantiene un rapporto complesso con il Myanmar. Pechino vede nel Myanmar un tassello cruciale per i propri interessi strategici nella regione. Il Paese rappresenta una porta d’accesso all’Oceano Indiano e un corridoio fondamentale per le rotte energetiche e commerciali cinesi, soprattutto attraverso il porto di Kyaukphyu e il gasdotto Myanmar-Cina.
Per la Cina, mantenere una certa stabilità in Myanmar è prioritario, ma ciò non significa necessariamente sostenere la giunta. Pechino ha storicamente coltivato rapporti sia con i militari sia con le forze di opposizione, utilizzando un approccio pragmatico per garantire i propri interessi. Ad esempio, il governo cinese ha condannato ufficialmente il colpo di Stato del 2021, ma ha evitato di imporre sanzioni alla giunta, mantenendo invece un atteggiamento di “non ingerenza”. Allo stesso tempo, la Cina continua a fornire supporto economico e militare indiretto al Myanmar, temendo che una completa destabilizzazione possa minacciare i suoi investimenti nella regione.
Non va dimenticato che Pechino deve anche gestire le tensioni lungo il confine con le milizie etniche che si oppongono alla giunta, alcune delle quali ricevono sostegno indiretto dalla Cina stessa. Questo equilibrio fragile rivela la natura ambivalente della politica cinese: da un lato, Pechino vuole un Myanmar sufficientemente stabile per proteggere i propri interessi economici; dall’altro, è pronta a sfruttare le divisioni interne per consolidare la sua influenza.
L’ultimo massacro solleva interrogativi sul ruolo della comunità internazionale. Le Nazioni Unite hanno condannato con fermezza le azioni della giunta, ma l’assenza di una risposta concreta sottolinea l’impotenza di fronte al veto cinese nel Consiglio di Sicurezza. Le sanzioni occidentali, pur colpendo l’élite militare, non sono riuscite a spezzare il sostegno economico proveniente da Paesi come la Cina e la Russia.
Nel frattempo il Myanmar continua a sprofondare in una crisi sempre più grave, in cui la popolazione civile è la prima vittima. L’attacco a Kyauk Ni Maw è solo l’ultimo esempio di una repressione brutale che rischia di trascinare il Paese verso un futuro senza speranza. La Cina, con il suo peso geopolitico, rimane un attore chiave nel determinare se il Myanmar troverà mai una via d’uscita dalla spirale di violenza. Ma finché prevarranno i calcoli strategici sugli interessi umanitari, la pace resterà un miraggio lontano.