di Giuseppe Gagliano –
Dietro la nuova campagna per i Rohingya, la minoranza musulmana perseguitata in Myanmar, si muovono fili più intricati di quanto appaia a prima vista. La pressione esercitata da ex diplomatici britannici su Marco Rubio, appena nominato Segretario di Stato americano, non è soltanto un gesto umanitario. È un episodio che riflette le dinamiche complesse del sistema di lobbying internazionale, dove interessi morali, politici ed economici si intrecciano con una precisione quasi chirurgica.
La Oak Foundation, un’organizzazione filantropica con una lunga storia di sostegno a cause umanitarie, e la società di consulenza diplomatica Independent Diplomat sono i protagonisti dietro le quinte. La loro opera di pressione mira a catalizzare l’intervento americano a favore dei Rohingya, ma a quale prezzo? E con quali obiettivi reali?
I Rohingya, vittime di una persecuzione sistematica da parte del governo del Myanmar e dei nazionalisti buddisti, anche sotto il governo de facto della Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, sono senza dubbio uno dei gruppi più vulnerabili al mondo. Apolidi, privati dei diritti fondamentali e costretti a cercare rifugio in campi sovraffollati, rappresentano una tragedia umanitaria di proporzioni enormi. Ma il loro dramma, finora ignorato da gran parte delle potenze mondiali, sta diventando improvvisamente un tema caldo per la diplomazia statunitense.
Perché ora? E soprattutto, perché Marco Rubio, noto per le sue posizioni conservatrici e il suo focus sulla politica latinoamericana, dovrebbe improvvisamente interessarsi a una minoranza asiatica? La risposta, come spesso accade, sta nella convergenza di agende multiple.
Il ruolo degli ex diplomatici britannici in questa campagna è emblematico. Londra, che già durante il periodo coloniale aveva usato i Rohingya come pedine in un delicato gioco di potere, sembra ora voler recuperare quel dossier per rinnovare la sua influenza in una regione sempre più dominata dalla Cina.
Per gli Stati Uniti il tema dei Rohingya offre un’opportunità strategica: mostrare un volto umanitario mentre si contrastano, in modo indiretto, gli interessi cinesi nel Sud-Est asiatico. Il Myanmar, con la sua posizione strategica tra India e Cina, è un tassello cruciale della Belt and Road Initiative di Pechino. Un maggiore coinvolgimento americano nella questione dei Rohingya potrebbe indebolire la presa cinese sul regime militare birmano e ampliare lo spazio di manovra per Washington.
Marco Rubio, con la sua retorica anti-cinese ben consolidata, è il personaggio ideale per incarnare questa strategia. Spingendo sulla questione umanitaria, può allo stesso tempo rafforzare la pressione diplomatica su un governo birmano che dipende fortemente dall’appoggio di Pechino.
La Oak Foundation e Independent Diplomat non sono nuovi a iniziative di questo tipo. Entrambi gli attori operano in una zona grigia, dove le buone intenzioni si mescolano con logiche di potere. La Oak Foundation, con sede a Ginevra, ha una storia di interventi in difesa dei diritti umani, ma non è estranea all’uso di finanziamenti per influenzare la politica internazionale. Independent Diplomat, da parte sua, è una macchina ben oliata che utilizza le sue connessioni per modellare l’agenda politica globale in base agli interessi dei suoi clienti.
Il sostegno ai Rohingya è certamente una causa nobile, ma chi trae beneficio da questa improvvisa attenzione internazionale? È lecito chiedersi se la minoranza perseguitata sia soltanto un pretesto per ridefinire le alleanze nel Sud-Est asiatico e rafforzare il dominio occidentale in una regione dove gli equilibri si stanno spostando rapidamente.
La storia dei Rohingya è tragica, ma anche profondamente sfruttabile. L’umanitarismo è da sempre uno strumento potente per giustificare interventi che hanno finalità molto più complesse. Gli Stati Uniti, spesso accusati di cinismo geopolitico, non esitano a utilizzare cause morali per giustificare operazioni che servono a mantenere la loro posizione egemonica.
Rubio, con la sua abilità oratoria e il suo profilo conservatore, potrebbe trasformare la questione Rohingya in un tema centrale del discorso americano sui diritti umani. Ma la domanda resta: quanto di questo impegno sarà realmente destinato a migliorare le condizioni di vita di una popolazione in fuga? E quanto invece verrà usato come leva politica contro il nemico di sempre, la Cina?
Dietro ogni gesto di solidarietà internazionale si nasconde una complessità che non può essere ignorata. La campagna per i Rohingya, sostenuta da fondazioni e società di consulenza, sembra essere tanto un atto di giustizia quanto una mossa strategica in una partita molto più grande. Per i Rohingya, una comunità che ha già pagato il prezzo di decenni di persecuzioni, l’intervento americano potrebbe rappresentare una speranza. Ma resta da vedere se sarà una speranza genuina o solo un’ennesima pedina in un gioco globale.