Nagorno-Karabakh: la diplomazia della guerra targata Ilham Aliyev con il benestare di Bruxelles

di Giuliano Bifolchi *

Il conflitto del Nagorno-Karabakh sembra si sia avviato verso una conclusione definitiva dopo che il primo ministro armeno Nikol Pashinyan ha firmato insieme al presidente azerbaigiano Ilham Aliyev ed il presidente russo Vladimir Putin una dichiarazione congiunta che sancisce la tregua nella regione e la fine di più di un mese di combattimenti.
Questo documento evidenzia la vittoria dell’Azerbaigian, che è riuscito ad avanzare nei territori del Nagorno-Karabakh (Artsakh in armeno) fino al punto di assediare la capitale Stepanakert, mentre dal lato armeno quanto avvenuto sottolinea la disfatta militare e il fallimento politico del premier Pashinyan. Gli animi delle parti belligeranti sono opposti, perché se a Baku si festeggia per la vittoria, a Yerevan le proteste hanno spinto i cittadini armeni a prendere d’assalto il Parlamento. Anche il mondo dei social è diviso con i cittadini azeri insieme all’apparato propagandistico di Baku intenti a festeggiare i successi militari mentre nel frattempo gli abitanti del Nagorno-Karabakh fuggono dalle proprie case e molti cittadini armeni esprimono il loro dolore per le vittime civili e per il ‘tradimento’ di Pashinyan nell’aver firmato un documento che sancisce la capitolazione.

(Foto: Notizie Geopolitiche / GB).
Questo conflitto era preannunciato e non ha potuto cogliere di sorpresa sia gli esperti dell’area che l’Unione Europea, visto che per anni la retorica di Baku aveva sottolineato che se il processo diplomatico fosse stato infruttuoso l’Azerbaigian avrebbe riconquistato il Nagorno-Karabakh con la forza. E questi proclami avvenivano mentre il governo azerbaigiano dedicava una consistente parte del proprio budget annuale alle spese militari comprando armi ed equipaggiamento bellico da Russia, Turchia ed Israele.
Mentre Baku ammassava armi l’Unione Europea stringeva accordi con la leadership azerbaigiana per perseguire la propria strategia di sicurezza energetica rendendo l’Azerbaigian esportatore di gas naturale in direzione di Bruxelles con l’obiettivo di diversificare le importazioni europee e diminuire la dipendenza dal gas del Cremlino. Anche l’Italia è interessata da questa strategia energetica, perché il gas naturale che verrà estratto dal giacimento di Shah Deniz II nel Mar Caspio arriverà in Puglia attraverso un sistema di gasdotti che attraverserà Georgia, Turchia (grazie al gasdotto transanatolico), Grecia, Albania, e giungerà infine nella penisola italiana (grazia al gasdotto transadriatico).
I media italiani e stranieri hanno scritto molto sul rinnovato conflitto del Nagorno-Karabakh, sul fatto che l’Azerbaigian sia stato supportato dalla Turchia, sui bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile, ospedali e chiese, sulla possibile presenza di mercenari turchi e siriani jihadisti tra le fila azerbaigiane, sul peso politico della Russia nella regione. A questo si potrebbe aggiungere come ancora nel 2020 la diplomazia della guerra rimanga per alcuni l’unica via perseguibile per raggiungere i propri obiettivi in politica estera. Questa guerra annunciata, preparata e tanto voluta da Baku è figlia dell’idea che gli organismi internazionali sono utili fino a quando è possibile ottenere successi per la propria causa, altrimenti l’uso della forza bellica rimane la via preferenziale. Scelta fatta da un governo, quello azerbaigiano, guidato dal presidente Ilham Aliyev che ha ‘ereditato’ il potere dal padre instaurando un regime dittatoriale-familiare tipico di alcune regioni dello spazio post-sovietico.
Non si può nascondere in effetti che l’Azerbaigian è al 168mo posto nell’indice della libertà di stampa e, secondo Amnesty International, il governo di Baku è colpevole di aver arrestato o imposto il divieto di viaggio con conseguente congelamento dei conti bancari a decine di leader di organizzazioni non governative (ONG) locali, attivisti, difensori dei diritti umani. La stessa Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) ha sottolineato come le leggi restrittive approvate dal governo azerbaigiano non offrono le condizioni favorevoli per il corretto funzionamento delle ONG, mentre anche le minoranze etniche presenti nel paese subiscono limitazioni, un paradosso per uno Stato che ha fatto del multiculturalismo il proprio brand vincente da esportare all’estero.

La piattaforma di giornalisti indipendenti OCCRP (Organised Crime and Corruption Reporting Project) ha dedicato diverse indagini all’Azerbaigian per quel che concerne le violazioni della libertà di stampa (il caso esemplare è quello della giornalista e attivista Khadija Ismayilova) o i traffici illegali della famiglia Aliyev accusata di utilizzare fondi pubblici per acquisire proprietà in Europa e nel mondo e di possedere conti bancari offshore (come dimostrato dai ben noti Panama Papers).
Un paese, l’Azerbaigian, che sarebbe stato incluso da Bruxelles nella lista delle dittature e molto probabilmente posto sotto sanzioni (basti pensare a quanto successo recentemente per la Bielorussia di Aleksander Lukashenko o per la Russia dopo la Crisi Ucraina o il caso Navalny), eventualità mai presa in considerazione dall’Unione Europea per meri interessi geopolitici e per quei famosi gas naturale e petrolio tanto ambiti dalla leadership europea.
Se in una Baku inebriata di felicità e festeggiamenti si parla delle conseguenze positive di questa tregua per l’intera regione, perché secondo la leadership azerbaigiana con i soldi si potranno ricostruire le infrastrutture in quei territori conquistati dall’esercito, tra gli armeni sono in aumento sentimenti di rabbia, tradimento, tristezza, vendetta e odio a dimostrazione di come una guerra, oltre a fare vittime civili, rilasci strascichi psicologici per lungo tempo, perché le armi non sono mai la via diplomatica migliore. L’Unione Europea si è girata dall’altra parte e non è intervenuta in un conflitto che poteva vederla veramente protagonista in una regione inserita all’interno della sua strategia di Partenariato Orientale, ennesimo fallimento in politica estera di Bruxelles che ha inoltre dimostrato come i principi democratici tanto cari al sistema Europa possono venire meno in caso di necessità e interessi geopolitici. Quella in Nagorno-Karabakh, in verità, non è stata solo la sconfitta dell’Armenia, ma di tutta l’Europa e dei valori democratici, mentre a vincere non è stato solo l’Azerbaigian, ma l’ideologia (divenuta molto cara alla Turchia di Erdogan negli ultimi tempi) che la potenza militare è l’unico strumento valido nelle relazioni internazionali contemporanee.

* Giuliano Bifolchi. Direttore della piattaforma di Intelligence ASRIE Analytica, dottore in Storia dei Paesi Islamici, Laureato in Scienze della Storia e del Documento presso l’Università Tor Vergata di Roma, ha conseguito un Master in Peace Building Management presso l’Università Pontificia San Bonaventura specializzandosi in Open Source Intelligence (OSINT) applicata al fenomeno terroristico della regione mediorientale e caucasica.