Nauru. Il governo australiano riprende a esportare gli “indesiderabili”

di Giuseppe Gagliano

La prima deportazione verso Nauru, avvolta nel segreto, riapre la ferita più scomoda della politica australiana: affidare a una minuscola isola del Pacifico il destino di persone indesiderate in patria. Il Commissario per i diritti umani Lorraine Finlay parla di “serie preoccupazioni”. Il punto è semplice e scomodo: esternalizzare non estingue le responsabilità. Lo ha ricordato anche il Comitato ONU per i diritti umani. Quando uno Stato affida ad altri la gestione dei richiedenti asilo, resta comunque tenuto a garantire standard minimi e trasparenza.
Canberra versa a Nauru una cifra enorme per tre decenni, promettendo sviluppo, servizi, pasti scolastici. Per l’isola da 12 mila abitanti è ossigeno economico, per l’Australia una polizza politica: allontanare alla vista dell’opinione pubblica il volto scomodo delle proprie scelte migratorie. Il ministro Tony Burke rivendica “il dovere di espellere chi perde il visto” e assicura alloggi dignitosi. Ma la segretezza sulla prima “coorte speciale”, il numero incerto dei trasferiti, l’uso di visti trentennali come soluzione finale, alimentano il sospetto che il denaro stia comprando il silenzio, più che diritti.
Non si riparte da zero. Organizzazioni come Human Rights Watch hanno documentato negli anni casi di negligenza medica, suicidi, sistemi sanitari sotto gli standard dell’Organizzazione mondiale della sanità. Un rapporto accademico del 2025 fotografa un arcipelago di fragilità: strutture inadeguate, carenza di personale, evacuazioni tardive. Sostenere che i nuovi arrivati “godranno di libertà di movimento e accesso ai servizi” è promessa da verificare sul campo. La trasparenza è l’unica moneta che qui conta davvero.
La linea australiana nasce per “disincentivare gli arrivi via mare” e spezzare il traffico di esseri umani. Il risultato, però, è un meccanismo permanente: centri fuori dal territorio, visti negati, ricollocazioni in Stati terzi. Si crea un diritto d’asilo per conto terzi, pagato a suon di miliardi. L’interesse nazionale, legittimo, diventa dottrina rigida che scarica su Paesi fragili il peso umano e morale delle scelte dei ricchi. Nauru accetta perché dipende dagli aiuti; l’Australia chiude il cerchio; i migranti restano pedine.
Nel Pacifico la competizione strategica è in pieno corso. L’Australia, pilastro della sicurezza regionale, cerca di presidiare rotte, alleanze, forniture, e insieme spinge un’agenda di controllo dei confini. Pagare Nauru significa anche cementare un legame politico in un’area contesa. In un contesto in cui potenze maggiori cercano influenza con porti, cavi, basi e crediti, i flussi finanziari verso una micro-isola assumono valore diplomatico: fedeltà in cambio di entrate. Ma quando l’oggetto dello scambio sono vite umane, la diplomazia sfiora il ricatto.
Due esigenze si scontrano: sicurezza dei confini e tutela delle persone. La prima è misurabile con numeri e barche respinte; la seconda chiede garanzie, monitoraggio indipendente, ricorsi effettivi. La segretezza è il nemico comune. Senza dati su trasferimenti, condizioni, cure, incidenti, ogni promessa è parola al vento. Se davvero i visti trentennali includono lavoro, servizi, libertà di movimento, allora si istituisca un meccanismo pubblico di verifica e si consenta accesso a osservatori credibili.
Tre passaggi sono imprescindibili. Primo: trasparenza integrale su numeri, criteri e condizioni, con ispezioni regolari di organismi indipendenti e pubblicazione dei risultati. Secondo: clausole vincolanti sull’assistenza sanitaria, con evacuazioni mediche rapide e standard minimi garantiti da Canberra, non solo da Nauru. Terzo: alternative reali all’esternalizzazione pura, come corridoi di reinsediamento controllati, decisioni accelerate sul territorio e cooperazione di polizia contro i trafficanti che non confonda vittime e criminali. Senza questi correttivi, il modello resta un escamotage contabile: si sposta il problema, non lo si risolve.
Ogni Paese ha diritto a regolare i confini. Ma quando la gestione si affida al segreto e all’assegno, la democrazia paga un prezzo: smarrisce il nesso tra legge e giustizia. L’Australia è una democrazia solida, capace di correggere la rotta. Nauru ha bisogno di sviluppo, non di diventare deposito degli irrisolti altrui. Se l’Occidente vuole distinguersi dai cinismi del mondo, lo faccia qui: con la luce accesa.