“Nica Act”, l’ennesimo schiaffo yankee al popolo nicaraguense

di Domenico Carbone

Il prossimo 6 Novembre avranno luogo le elezioni politiche presidenziali in Nicaragua. Dal 2006 il paese è governato da Daniel Ortega, leader del Fronte sandinista di Liberazione nazionale, e sembra praticamente scontato il prosieguo del percorso di governo da lui guidato.
La situazione politica attuale nel paese centroamericano pare abbastanza netta: seppure tra evidenti contraddizioni sociali (ed un sempre maggiore distacco tra la maggioranza della popolazione ed il governo), negli ultimi anni lo Stato guidato da Ortega sembra aver intrapreso il corretto cammino di sviluppo, riuscendo a garantirsi una certa forma di autonomismo, soprattutto in ambito energetico. Il tasso di energia derivante dalle fonti rinnovabili ha superato il 50% del fabbisogno nazionale (entro il 2020 l’obiettivo prefissato resta quello del 90%) e lo sviluppo del Prodotto Interno Lordo è in continua e forte crescita.
Nonostante però questi recenti fattori positivi emerge l’ennesimo schiaffo nei confronti dei nicaraguensi da parte del governo statunitense, da sempre avverso alle politiche sandiniste.
Il 22 settembre 2016 è stata approvata dal Congresso di Washington la “Nicaraguan Investment Conditionality Act” (più comunemente denominata NICA Act), su proposta della senatrice repubblicana Ileana Ros-Lehtinen. Secondo la legge in questione viene posto dal governo statunitense il divieto di accesso per il Nicaragua a prestiti finanziari emessi da organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, a meno che tali fondi non siano necessari (come dice la legge stessa) “ad adottare misure efficaci per mantenere elezioni libere, eque e trasparenti”.

Nica act fuori

Secondo molti tale misura rappresenta una sorta di impedimento ad alcuni dei processi di sviluppo attuabili solamente attraverso un accesso ai prestiti concessi dalle organizzazioni in questione. Si tratterebbe quindi di uno sgambetto all’evoluzione economica del paese, giustificata dal fatto che il governo sandinista (sempre secondo gli statunitensi) limiti la voce delle opposizioni e non consenta elezioni totalmente libere.
Ma per avere chiaro il motivo di una così netta ingerenza politica da parte di Washington nei confronti di Managua bisogna tornare indietro addirittura al 1825. Fu in quell’anno che gli Stati Uniti furono contattati dal Nicaragua (allora facente parte della Repubblica Federale del Centro America) per riuscire ad ottenere finanziamenti e abilità ingegneristiche capaci di dare vita al Canale del Nicaragua, un’opera colossale capace di unire l’Oceano Atlantico a quello Pacifico, attraversando l’intero paese.
Solo nel 1849 si riuscì a raggiungere un accordo con l’imprenditore americano Cornelius Vanderbilt, che garantì la riuscita di tale opera nell’arco di dodici anni. Il processo però si arenò quasi subito a causa della situazione perennemente instabile del Nicaragua. Il Canale non venne comunque dimenticato e l’arrivo dei Marines nel 1912 sulle coste Nicaraguensi fu l’occasione per prenderne nuovamente in mano il progetto. Gli Stati Uniti intervennero militarmente per la prima volta sul suolo del Nicaragua per offrire sufficiente appoggio al destituito presidente filoamericano Adolfo Diaz, il quale riuscì in poco tempo a tornare al potere. L’influenza socio-economica a “stelle e strisce” rimase salda fino al 1926, anno in cui il dirigente conservatore Emiliano Chamorro attuò un colpo di stato ai danni del presidente Carlos Solorzano. Da allora nacque e cominciò ad espandersi l’ideologia ribelle sandinista grazie alla guerriglia anti-imperialista condotta del comandante Augusto César Sandino il quale, in breve tempo, riuscì a porre sotto controllo la quasi totalità del territorio nazionale. Di lì a pochi anni si assistette al ritorno in patria delle forze armate statunitensi, dovuto soprattutto alla Grande Crisi del ’29 e alla politica “di buon vicinato” voluta dal presidente Roosevelt.
Per assistere nuovamente ad un’ingerenza Statunitense negli affari interni del Nicaragua bisognerà attendere fino agli anni ’80, quando emergerà allo scoperto lo scandalo “Irangate”, attraverso il quale il governo Reagan riuscì a garantire una cospicua fonte di sostentamento (derivata da un traffico illecito di armi con l’Iran) ai cosiddetti “Contras”, impegnati nella lotta alle forze Sandiniste.
Nel corso degli anni il progetto di costruzione del Canale per mano Statunitense non venne comunque mai attuato. Nel 2013 furono perfino assegnati i diritti di costruzione e gestione dell’opera alla grande industria cinese “Hong Kong Nicaragua Canal Development”.
Sebbene risulti innegabile come i lavori apporteranno un significativo aumento della manodopera a vantaggio della popolazione locale, è anche vero che da allora si potè assistere nel paese alla crescita del malcontento per la costruzione di un’opera tanto colossale da porre a rischio la tutela ambientale e sociale. Le comunità indigene presenti nell’area interessata alla costruzione sono le prime a sentirsi penalizzate dall’esproprio delle terre coinvolte e la maggioranza dei contadini si dice pronta a combattere fino alla morte, spinti soprattutto da un sempre più crescente sentimento anti-cinese nel paese.
Bisogna però necessariamente aggiungere anche come i lavori siano ancora praticamente fermi, ed il magnate delle telecomunicazioni Wang Jing (presidente della HKND Group) pare abbia visto crollare il suo patrimonio netto da 10,2 miliardi di dollari a 1,1 miliardi.
Tale lentezza e instabilità dei lavori accrescono l’ulteriore insoddisfazione della popolazione. Ed è proprio cavalcando queste forme di malcontento che il governo degli Stati Uniti d’America tenta ancora una volta uno scacco al Sandinismo, consapevole di come una maggiore autonomia degli stati centrali e meridionali del continente rappresenti uno smacco per il popolo e l’economia Yankee; ancor di più se ciò avviene a vantaggio del sempre più potente e ricco capitalismo cinese.

Nicaragua canale fuori

Nella prima foto il presidente Daniel Ortega ed il magnate cinese Wang Jing.