Niger. La guerra dimenticata del nord-est: 26 morti nel Borno

di Giuseppe Gagliano

Nessuna telecamera. Nessuna breaking news. Solo i resti carbonizzati di un pick-up, donne e bambini compresi. È accaduto ancora, il 28 aprile, su una strada sterrata tra Rann e Gamboru, nello Stato di Borno, nel nord-est della Nigeria. Un tratto remoto, ma strategico, vicino al confine con il Camerun. Lì, tra le sabbie rosse e i crateri di guerra, gli ordigni improvvisati dell’ISWAP hanno fatto 26 morti. La notizia è passata sotto silenzio, come avviene da anni per i massacri quotidiani che insanguinano la regione.
Gli esplosivi, nascosti tra la sabbia e i resti dell’asfalto, erano destinati ai convogli militari. Ma a saltare in aria sono stati contadini e commercianti locali. La dinamica è nota, tragicamente rodata: l’ISWAP, costola dissidente di Boko Haram legata al sedicente Stato Islamico, piazza mine artigianali lungo le rotte percorse dalle pattuglie. Ma quando a passare è un veicolo civile, poco importa. La guerra prosegue anche così, con il sangue dei più poveri.
Il conflitto jihadista nella Nigeria nord-orientale ha ormai valicato i confini nazionali. Niger, Ciad, Camerun: sono tutti coinvolti in uno scenario dove l’insurrezione islamista si alimenta di porosità territoriali, povertà estrema e un’apparente indifferenza internazionale. Dal 2009, il bilancio è spaventoso: oltre 35mila civili uccisi e più di 2 milioni di sfollati. Eppure, l’Africa subsahariana resta fuori dai radar della geopolitica globale, utile solo quando c’è da contenere i flussi migratori o sfruttare le risorse.
Negli ultimi mesi il gruppo ha mostrato un salto qualitativo. Droni armati utilizzati contro postazioni militari, attacchi coordinati, comunicazioni via Telegram: segni inequivocabili che lo Stato Islamico, o quel che ne resta, continua a fornire know-how e forse finanziamenti. Secondo il ricercatore francese Vincent Foucher, anche consiglieri stranieri sarebbero stati inviati sul campo. L’ISWAP non è più solo un’insorgenza locale, ma l’avamposto di una jihad transnazionale in piena riorganizzazione.
L’esercito nigeriano ha appena nominato un nuovo comandante, il generale Abdulsalam Abubakar. Ma il cambio di vertici non basta. La Civilian Joint Task Force, forza civile che affianca i militari, è ridotta allo stremo. La popolazione resta abbandonata, tra la brutalità dei terroristi e l’incapacità dello Stato. E mentre i droni esplodono e le mine dilaniano, la comunità internazionale continua a voltarsi dall’altra parte.