di Giuseppe Gagliano –
Nel Delta del Niger, uno dei territori più devastati dall’industria petrolifera mondiale, la multinazionale Shell continua a essere al centro di una lunga e drammatica battaglia legale e sociale. Per decenni le fuoriuscite di petrolio hanno avvelenato la terra e le acque della regione, compromettendo la vita e i mezzi di sussistenza delle comunità locali. Ora, con la vendita delle sue attività onshore alla compagnia nigeriana Renaissance Africa Energy, la Shell potrebbe riuscire a sottrarsi alle proprie responsabilità.
La Shell, attraverso la sua filiale nigeriana Shell Petroleum Development Company (SPDC), afferma di intervenire sempre per bonificare le aree colpite da sversamenti. Ma la realtà sul campo racconta un’altra storia. Le comunità locali lamentano interventi tardivi e insufficienti, mentre la compagnia si prepara a lasciare la scena vendendo la SPDC alla Renaissance Africa Energy per 1,3 miliardi di dollari.
Secondo i dirigenti della multinazionale, la decisione fa parte di una strategia per ridurre l’impatto ambientale delle proprie operazioni e concentrarsi sull’estrazione offshore. Ma in molti, tra attivisti e legali, temono che il passaggio di proprietà non farà altro che rendere ancora più difficile chiedere conto dei danni ambientali subiti.
Secondo il WWF, nei primi cinque decenni di sfruttamento petrolifero nel Delta del Niger, Shell e altre compagnie hanno versato nell’ambiente l’equivalente di un disastro Exxon Valdez all’anno. E mentre l’azienda si difende attribuendo gran parte delle perdite a sabotaggi e furti, i residenti denunciano infrastrutture obsolete, scarsa manutenzione e l’assenza di sistemi adeguati per prevenire le perdite.
Le conseguenze non si limitano ai terreni agricoli e ai corsi d’acqua. Uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science ha rivelato che l’inquinamento petrolifero nella regione raddoppia il tasso di mortalità neonatale, causando ogni anno la morte di circa 16mila bambini.
In teoria, la legge nigeriana impone alle compagnie petrolifere di rispettare rigidi standard ambientali. Ma nella pratica, la situazione è ben diversa. Gruppi ambientalisti come Friends of the Earth accusano Shell di aver ripetutamente eluso le proprie responsabilità, risolvendo alcune cause legali con accordi extragiudiziali, ma rimandandone altre con manovre burocratiche e infiniti ricorsi in appello. In molti casi, i querelanti sono morti prima di ottenere giustizia.
Di fronte all’inefficienza del sistema giudiziario nigeriano, negli ultimi anni le comunità colpite hanno cercato giustizia all’estero. Nel 2015 Shell ha accettato di pagare 67 milioni di euro per risolvere una causa a Londra relativa a uno sversamento vicino alla fattoria di Agbaalor. Nel 2021, un tribunale olandese ha stabilito che la compagnia era responsabile dell’inquinamento in due comunità del Delta, costringendola a versare 15 milioni di euro di risarcimento.
A novembre 2023, un tribunale britannico ha dichiarato ammissibile una causa collettiva presentata da 13.000 persone per un altro disastro ambientale. Se il procedimento dovesse concludersi con una condanna, potrebbe trattarsi del risarcimento più alto mai imposto alla multinazionale.
Shell ha cercato di difendersi chiedendo ai querelanti di dimostrare il legame diretto tra i danni subiti e specifici incidenti, ma la corte ha respinto questa richiesta, riconoscendo l’impossibilità di stabilire un nesso esatto tra le fuoriuscite avvenute nel corso di decenni.
Se Shell, grazie alla sua struttura internazionale, può essere perseguita nei tribunali europei, lo stesso non vale per la Renaissance Africa Energy, che risponderà solo alla giustizia nigeriana. Nel Delta del Niger esistono appena due tribunali federali, con personale e risorse insufficienti. Inoltre, molti degli avvocati più competenti lavorano per le compagnie petrolifere, rendendo ancora più difficile per le comunità locali ottenere un equo risarcimento.
Il timore è che Renaissance segua le orme della Shell, limitandosi a minimizzare i danni e a evitare risarcimenti significativi. Alcuni attivisti sospettano che l’azienda abbia già problemi di liquidità: per completare l’acquisizione della SPDC ha ottenuto prestiti per 1,15 miliardi di euro, una cifra che potrebbe ridurre drasticamente le risorse disponibili per interventi ambientali e compensazioni economiche.
Secondo la legge nigeriana chi acquista infrastrutture petrolifere usate dovrebbe depositare una somma considerevole per coprire i costi di smantellamento. Ma il Centre for Research on Multinational Corporations, un’organizzazione olandese, non è riuscito a trovare prove che tale deposito sia stato effettuato. Shell, dal canto suo, ha evitato di fornire dettagli in merito.
Il destino del Delta del Niger e dei suoi abitanti dipenderà da quanto la nuova proprietà sarà realmente disposta a investire nella tutela dell’ambiente. Ma per chi vive ogni giorno sulla propria pelle le conseguenze dell’inquinamento, la sensazione è che l’ennesima promessa di riscatto rischi di rivelarsi solo l’ennesimo inganno.