Nigeria. Jihadisti, pirati e secessionisti: l’incapacità delle autorità di garantire la sicurezza

di Giuseppe Gagliano –

La Nigeria, cuore demografico ed economico dell’Africa occidentale, è oggi una nazione intrappolata tra violenza endemica e fragilità istituzionale. Con oltre 230 milioni di abitanti e un’economia trainata da petrolio, agricoltura e servizi, il Paese resta incapace di garantire la sicurezza di base. Le cinque cause identificate dall’Africa Center for Strategic Studies, cioè jihadismo, banditismo, conflitto tra agricoltori e pastori, secessionismo biafrano e pirateria, sono i volti di un unico problema: l’assenza di un’autorità statale effettiva e di una coesione nazionale.
Dal 2009 Boko Haram e la sua costola, lo Stato Islamico dell’Africa Occidentale (ISWA), devastano il nord-est del Paese. Dopo le offensive militari del 2015, i jihadisti si sono ritirati nelle foreste di Sambisa e nelle paludi del Lago Ciad, dove hanno consolidato basi mobili e un’economia di guerra. Le operazioni del governo, pur costose, non hanno prodotto stabilità.
La violenza jihadista si è trasformata da rivolta locale a conflitto di lunga durata, alimentato da povertà, corruzione e marginalizzazione delle popolazioni del Nord. Boko Haram, inizialmente movimento religioso, è oggi una rete criminale e ideologica capace di reclutare giovani Fulani sfruttando il malcontento e la disoccupazione. La minaccia è quindi tanto sociale quanto militare.
Nel nord-ovest, bande armate hanno riempito il vuoto lasciato dallo Stato. Rapimenti, estorsioni e assalti alle vie di comunicazione costituiscono una vera industria del riscatto. Gli Stati di Zamfara, Katsina e Niger sono divenuti epicentri di questa economia criminale, dove le famiglie pagano per la libertà dei propri cari e i villaggi si svuotano per paura.
Questi gruppi, spesso collegati a reti jihadiste, non combattono per ideologia ma per profitto. In una regione senza infrastrutture, il rapimento è divenuto la principale fonte di reddito. È il sintomo di un Paese in cui la sicurezza è stata privatizzata e la sopravvivenza affidata ai vigilantes o alle milizie locali.
Il terzo fronte è la Middle Belt, la cintura fertile del Paese, oggi divenuta linea di faglia tra agricoltori sedentari e pastori nomadi. La desertificazione, l’espansione delle coltivazioni e la crescita demografica hanno distrutto i tradizionali equilibri.
Secondo i dati dell’US Geological Survey, i terreni aperti al pascolo sono diminuiti del 38% in quarant’anni, mentre quelli agricoli sono triplicati. Le comunità, incapaci di risolvere le dispute attraverso i meccanismi tribali di una volta, si sono armate. Le milizie etniche alimentano un conflitto dove la religione è solo un pretesto per la competizione economica e territoriale.
Nel sud-est, il Popolo Indigeno del Biafra (IPOB) ha riacceso la fiamma del separatismo. La creazione dell’Eastern Security Network nel 2020 ha militarizzato la regione, contrapponendo i miliziani alle forze di sicurezza federali. Gli scontri hanno causato decine di morti e un diffuso senso di sfiducia verso lo Stato centrale.
Dietro la retorica secessionista si nasconde un sentimento di esclusione politica e di concentrazione delle risorse petrolifere nelle mani dell’élite di Abuja. Il federalismo nigeriano, più formale che reale, non ha mai garantito un’equa distribuzione della ricchezza nazionale.
Nel Golfo di Guinea, la pirateria è divenuta l’altra faccia della crisi del Delta del Niger. Qui, dove si concentra la produzione petrolifera, il sabotaggio di oleodotti e il sequestro di tecnici stranieri sono pratiche consolidate. Gruppi come il Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger (MEND) si muovono tra politica e criminalità, sfruttando il sostegno delle comunità impoverite.
Nonostante la riduzione degli attacchi dal 2020 al 2024, il problema resta strutturale: uno Stato incapace di controllare il territorio marittimo e di offrire alternative economiche alle popolazioni costiere.
L’inserimento della Nigeria da parte di Trump nella lista dei Paesi sotto osservazione per violazioni della libertà religiosa ha riportato la questione all’attenzione globale. Tuttavia, i dati mostrano che la violenza colpisce indistintamente cristiani e musulmani. Lungi dall’essere un genocidio religioso, la crisi nigeriana è un conflitto multifattoriale dove la religione serve più a giustificare la violenza che a spiegarla.
Le accuse di “massacri di cristiani” servono a mobilitare l’elettorato evangelico americano più che a risolvere le radici del problema. La Nigeria diventa così pedina in una narrazione geopolitica occidentale che strumentalizza la fede per fini elettorali e strategici.
In fondo le cinque cause dell’insicurezza nigeriana convergono in un’unica diagnosi: la crisi dello Stato. Mancano istituzioni credibili, una leadership coesa e una visione nazionale. L’esercito, pur numeroso, è diviso da rivalità interne e da corruzione diffusa.
Senza un progetto di riconciliazione e di sviluppo equo tra Nord e Sud, la Nigeria rischia di diventare un mosaico di zone autonome, ognuna controllata da un potere locale armato. E questo, per il più popoloso Paese africano, significherebbe non solo la perdita della sovranità ma anche la destabilizzazione dell’intero continente.