
di Giuseppe Gagliano –
Il rifiuto del Fronte Kanak e Socialista di Liberazione Nazionale (FLNKS) di approvare l’accordo di Bougival, firmato a luglio tra il ministro francese Manuel Valls e i rappresentanti caledoniani, riapre la frattura mai risolta sul destino dell’arcipelago del Pacifico. Un anno dopo le rivolte del maggio 2024, costate 14 vite e mesi di instabilità, la Nuova Caledonia torna a trovarsi sull’orlo di un conflitto politico e sociale che si intreccia con interessi economici globali e strategie geopolitiche di lungo periodo.
L’accordo respinto dal FLNKS prevedeva la creazione di uno “Stato della Nuova Caledonia” all’interno della Repubblica Francese e il riconoscimento di una “nazionalità caledoniana” inscindibile da quella francese. Una formula di compromesso che avrebbe dovuto aprire la strada a una decolonizzazione graduale. Ma le condizioni, come la necessità di un voto del 60% del Congresso locale per il trasferimento di poteri sovrani, sono state percepite dagli indipendentisti come un ostacolo al principio di autodeterminazione, più che come una garanzia di stabilità.
Le ferite del passato coloniale restano profonde. La rivolta del 2024 ha dimostrato quanto fragile sia l’equilibrio sociale tra popolazione Kanak e comunità europee. Per i lealisti la Francia resta l’ancora di stabilità e di sviluppo; per i Kanak, rappresenta ancora una forma di dominio coloniale mascherato. L’accordo di Bougival è così naufragato tra due visioni inconciliabili: quella che punta a mantenere il legame con Parigi e quella che reclama una piena sovranità nazionale.
La Nuova Caledonia non è solo un dossier politico, ma anche una questione economica cruciale. L’arcipelago possiede alcune delle più ricche riserve mondiali di nickel, risorsa strategica per l’industria delle batterie e per la transizione energetica globale. Francia, Cina, Giappone e Australia hanno da tempo messo gli occhi su queste ricchezze. Ogni scelta istituzionale avrà ricadute dirette sugli investimenti stranieri, sulla distribuzione dei profitti e sulla capacità di ricostruire un territorio devastato dalle rivolte. Parigi ha già legato il proprio sostegno finanziario alla stabilità politica, condizionando di fatto il processo di autodeterminazione.
Emmanuel Macron si è spesso dichiarato critico verso il passato coloniale francese, ma la sua strategia in Nuova Caledonia rivela una contraddizione: riconoscere l’aspirazione indipendentista senza rinunciare al controllo politico ed economico di un territorio strategico. Per la Francia, la Nuova Caledonia è una piattaforma essenziale nel Pacifico, che rafforza la sua presenza militare e la sua capacità di proiezione verso l’Indo-Pacifico, regione ormai al centro della competizione globale tra Stati Uniti e Cina.
La crisi caledoniana non riguarda solo Parigi e Nouméa. L’arcipelago si colloca in un quadrante strategico dove Pechino cerca di ampliare la sua influenza attraverso investimenti e accordi infrastrutturali, mentre Washington e Canberra temono che un’indipendenza senza garanzie possa aprire la porta all’espansione cinese. In questo senso, il fallimento dell’accordo non è solo una battuta d’arresto per Macron, ma anche un segnale di instabilità che rischia di ridisegnare gli equilibri dell’Indo-Pacifico.
Il ministro Valls ha definito “incomprensibile” la decisione del FLNKS, ma ha confermato la sua missione in Nuova Caledonia. Il dialogo continuerà, ma in un clima di sfiducia reciproca e con il rischio che ogni ritardo riaccenda tensioni sociali. La sfida non è solo scrivere un patto costituzionale, ma trasformare una crisi coloniale in un percorso condiviso di sovranità. Senza un vero riconoscimento delle aspirazioni Kanak, qualsiasi compromesso resterà precario, sospeso tra la necessità francese di mantenere un avamposto nel Pacifico e il desiderio del popolo indigeno di affermare finalmente la propria indipendenza











