di Giuseppe Gagliano –
Le accuse di coinvolgimento degli Stati Uniti in operazioni di cambio di regime in Pakistan e Bangladesh rappresentano un caso emblematico delle dinamiche geopolitiche contemporanee e delle tensioni latenti che attraversano l’Asia meridionale. Due ex primi ministri, Imran Khan del Pakistan e Sheikh Hasina del Bangladesh, hanno denunciato l’intervento statunitense come la causa principale della loro rimozione dal potere, sostenendo che dietro questi eventi si celino motivazioni strategiche legate al contenimento dell’influenza cinese e alla salvaguardia degli interessi americani nella regione indo-pacifica.
Nel caso di Imran Khan, le tensioni sono esplose a seguito di una comunicazione critica tra l’ambasciatore pakistano negli Stati Uniti e alti funzionari del Dipartimento di Stato americano. La posizione “aggressivamente neutrale” di Khan rispetto al conflitto tra Russia e Ucraina avrebbe irritato Washington, che avrebbe visto in questa postura un potenziale allineamento di Islamabad con Mosca. Questa percezione avrebbe spinto gli Stati Uniti a supportare implicitamente, o a tollerare, manovre politiche interne in Pakistan volte a destituire Khan, culminate nella sua rimozione dal potere tramite un voto di sfiducia parlamentare. La situazione di Khan è diventata ancora più critica dopo la sua incarcerazione, un atto che ha ulteriormente alimentato le speculazioni sul ruolo delle pressioni esterne nella politica interna pakistana.
Parallelamente in Bangladesh, la crisi politica ha preso una piega violenta con il rovesciamento di Sheikh Hasina. Hasina ha attribuito la sua caduta alla mancata concessione di basi militari agli Stati Uniti, ritenute essenziali da Washington per rafforzare la propria presenza strategica nell’Indo-Pacifico e contrastare l’influenza crescente della Cina. Secondo alcune fonti, Hasina avrebbe rifiutato di compromettere la sovranità del Bangladesh, opponendosi a pressioni per firmare accordi militari che avrebbero legato Dhaka a una cooperazione più stretta con gli Stati Uniti. Questo rifiuto avrebbe scatenato una serie di eventi che hanno portato alla sua estromissione e alla successiva fuga in India, mentre il paese veniva scosso da proteste e disordini.
La presunta strategia statunitense di destabilizzazione dei governi non allineati solleva preoccupazioni sulla violazione del principio di non intervento, sancito dal diritto internazionale. Se le accuse si rivelassero fondate, la pratica di cambio di regime rappresenterebbe una minaccia diretta alla sovranità nazionale dei paesi colpiti e destabilizzerebbe l’intero scenario geopolitico regionale. Questa situazione richiede un’attenta riflessione sulla legittimità delle azioni di potenze esterne nei confronti di stati sovrani e sulla necessità di proteggere l’autonomia decisionale dei paesi più piccoli. La comunità internazionale, rappresentata dalle Nazioni Unite, potrebbe dover intervenire per investigare e potenzialmente sanzionare tali interferenze, al fine di mantenere l’equilibrio e la pace globale. La questione non riguarda solo la stabilità di Pakistan e Bangladesh, ma pone un dilemma più ampio sul ruolo delle superpotenze nella definizione degli equilibri politici internazionali e sul rispetto delle norme di sovranità e autodeterminazione.