Palestina. Albanese (ONU), ‘Israele non indagherà sulla morte di Abu Akleh? Conferma le accuse di impunità’

'Aprirò un’inchiesta, gli stati applicano doppio standard con regime apartheid'.

Agenzia Dire

“La decisione delle autorità israeliane di non aprire nessuna inchiesta sulla morte della giornalista di al-Jazeera uccisa l’11 maggio scorso a Jenin non mi sorprende. Da tempo si denuncia un clima di impunità, un’incapacità o mancanza di volontà di Israele di assicurare inchieste obiettive ed efficaci sulle violenze ricorrenti a danno dei Palestinesi. Serve pressione internazionale, ma purtroppo, nel caso della Palestina occupata, dove sono i palestinesi a subire violenze, la forza del diritto viene regolarmente sacrificata in nome dell’opportunità politica di non mettere in difficoltà Israele. E’ mia intenzione, in quanto relatrice speciale delle Nazioni Unite, avviare un’indagine sulla morte di Abu Akleh, ma è necessario che mi sia consentito l’accesso al territorio Palestinese sotto occupazione Israeliana. Purtroppo da una decina d’anni Israele ostacola l’ingresso di osservatori esterni, relatori speciali e commissioni d’inchiesta sulla Palestina Occupata”. A parlare con l’agenzia Dire è Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina occupata.
L’esperta interviene a proposito dell’uccisione di Shireen Abu Akleh, 51 anni, inviata palestinese di al-Jazeera con cittadinanza statunitense, freddata da un colpo d’arma da fuoco mentre si trovava con altri sei colleghi nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Tutti indossavano il gilet identificativo con su scritto “press” e caschetto protettivo.
Il campo è un luogo di tensioni perché, come ricorda la relatrice, “ospita ancora i palestinesi espulsi dai territori della Palestina sotto mandato britannico nel processo di creazione dello stato d’Israele tra il 1948, e dopo l’occupazione militare cominciata nel giugno del 1967”. Un’area da sempre vista da Israele come pericolosa sacca di resistenza dove “da aprile- continua Albanese- si sono registrate frequenti operazioni militari di Israele, anche perché sarebbero giunti da lì alcuni dei palestinesi accusati degli ultimi atti di terrorismo a Tel Aviv” in cui hanno perso la vita tre persone.
Le operazioni militari condotte nel campo di Jenin “sono spesso violente” avverte la relatrice. “Abu Akleh era lì per seguirle. Dai filmati che circolano online, emerge che al momento dell’uccisione la giornalista non si trovava in mezzo al fuoco di forze israeliane e militanti palestinesi” chiarisce la relatrice Onu, tesi invece caldeggiata dall’esercito israeliano sebbene, all’indomani dell’uccisione di Abu Akleh, il governo di Naftali Bennett abbia aperto alla possibilità che il colpo sia stato sparato da uno dei militari israeliani sul luogo.
Negli ultimi giorni l’esercito israeliano, stando a quanto riferisce la testata israeliana Ha’aretz, avrebbe identificato l’arma da cui è partito il proiettile ma l’anticrimine della polizia ha deciso di chiudere il caso “per evitare divisioni”. “Mi stupisce questa decisione- continua Francesca Albanese- in un momento in cui l’attenzione del mondo è puntata su Israele non solo per la morte di Abu Akleh ma anche per le violenze che vi hanno fatto seguito e per cui c’è stata una condanna pressoché unanime dell’efferatezza usata dalle forze israeliane”. La relatrice Onu cita l’assalto delle forze israeliane all’ospedale in cui la reporter è stata trasportata, poi presso l’abitazione della famiglia dove si erano radunati parenti e amici subito dopo la notizia del decesso. Infine, l’assalto al corteo funebre, dove “i poliziotti israeliani sono intervenuti in tenuta anti-sommossa- dice Albanese- e dai video è evidente che non erano in corso violenze: da quanto emerge si è trattato di un assalto alla popolazione civile in un momento di grande cordoglio”.
Le esequie sono avvenute a Gerusalemme Est che, come prosegue Albanese, “è trattata da Israele come parte della propria capitale, nonostante questo sia contrario al diritto internazionale ai sensi del quale Gerusalemme Est è sotto occupazione e su di essa Israele non può esercitare che meri poteri di amministrazione”.
I blitz all’ospedale, a casa della famiglia e al corteo funebre hanno un tratto in comune: “l’aggressione alla folla che esibiva la bandiera dell’Olp (Organizzazione di liberazione della Palestina, ndr), il simbolo dell’identità nazionale palestinese. Mostrarla”, chiarisce l’esperta Onu, “rientra nel diritto della popolazione palestinese da 55 anni sotto occupazione israeliana. Tuttavia in un sistema di apartheid e coloniale, qualsiasi simbolo dell’identità della popolazione indigena rappresenta una minaccia nei confronti del potere dominante, e si tende quindi a reprimerlo”.
A usare il termine “apartheid” per la prima volta, chiarisce la relatrice, “è stato nel 2007 il relatore speciale per la Palestina John Dugard, sudafricano, che intravide elementi analoghi a quella praticata in Sudafrica. Negli ultimi mesi anche due organizzazioni israeliane, Human Rights Watch e Amnesty International, dopo anni di studi documentati, hanno accusato Israele di praticare il crimine di apartheid tanto nei confronti della minoranza palestinese in Israele (la cosiddetta ‘minoranza araba’) e nei territori occupati”.
Di fronte a questa situazione, le Nazioni Unite cosa possono fare? “Già all’indomani della guerra del 1967 – in cui Israele occupò la Striscia di Gaza e la Penisola del Sinai in Egitto, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le Alture siriane del Golan – il Consiglio di Sicurezza chiese ad Israele di ritirare le proprie truppe. Per riportare la pace in quelle aree, bisogna porre fine all’occupazione smantellando il sistema di apartheid e l’anacronistico dominio coloniale che Israele ha imposto”. Ma per arrivare a questo, continua Albanese, “serve volontà politica”. Quella stessa voglia di far valere il diritto internazionale “che vediamo in Ucraina: l’aggressione illegale e illegittima della Russia è stata immediatamente denunciata. La comunità internazionale è stata capace di sollevarsi non solo per la vita e l’autodeterminazione della popolazione ucraina, ma anche per il suo diritto a resistere. Tutto questo perde di senso quando si tratta di Palestina. Il popolo palestinese rimane vittima di un doppio standard”.
Quanto alle sanzioni contro la Russia, dovrebbero essere applicate anche ad Israele? “Certamente delle misure diplomatiche, politiche ed economiche come previsto dalla Carta delle Nazioni Unite- replica la Relatrice Onu- sono un elemento necessario per pensare di ritornare al rispetto del diritto internazionale, e per la coerenza e l’integrità stessa dell’ordine internazionale”.