Palestina. Israele vuole nuove colonie a Hebron, nella parte araba

di Giuseppe Gagliano

Il piano israeliano per costruire un nuovo insediamento nell’area dell’ex mercato ortofrutticolo palestinese di Hebron non è un episodio locale, ma l’ennesimo tassello di una strategia di lungo periodo: trasformare l’occupazione in fatto compiuto irreversibile. Sessantatré unità abitative per coloni, due edifici di sei piani con parcheggi sotterranei, una terza struttura con aule, biblioteca e sinagoga su oltre dodicimila metri quadrati. In apparenza edilizia. In realtà, geopolitica allo stato puro, nel punto forse più simbolico della Cisgiordania.
Quel mercato non è un vuoto urbanistico da riempire. Era il cuore commerciale della città vecchia, finché nel 1994 un colono israeliano fece strage nella moschea di Ibrahim, uccidendo ventinove palestinesi e ferendone oltre cento. Da allora, per “ragioni di sicurezza”, i palestinesi sono stati esclusi dall’area. Oggi la chiusura temporanea si traduce in esproprio permanente. Il Comune di Hebron, che rivendica titoli di proprietà e sentenze favorevoli, denuncia un “assalto alla propria giurisdizione”. Ma la logica è chiara: là dove la violenza ha svuotato gli spazi palestinesi, l’insediamento li riempie con presenza e mattoni israeliani.
In base al protocollo del 1997, Hebron è divisa tra zona sotto controllo palestinese e zona sotto controllo israeliano, che comprende la città vecchia e i dintorni della moschea. È in questa parte che si inserisce il nuovo insediamento, protetto dall’esercito e agganciato alla rete di strade, posti di blocco, infrastrutture che collegano le colonie tra loro e separano i palestinesi dal loro stesso territorio. Da anni macchinari e demolizioni preparano il terreno, a dispetto dei ricorsi e delle proteste. Ora il progetto entra nella fase politica decisiva: non più qualche appartamento, ma un corpo edilizio compatto, studiato per radicare una comunità di coloni nel cuore della città palestinese.
Le Nazioni Unite ripetono da decenni che gli insediamenti nei territori occupati sono illegali. La massima corte dell’Onu, nel luglio 2024, ha dichiarato illegale l’occupazione stessa e ha chiesto il ritiro rapido delle colonie. La risposta del governo Netanyahu è andata in direzione opposta: via libera al progetto “E1” da circa 3.400 unità vicino a Ma’ale Adumim, destinato a tagliare in due la Cisgiordania e a separarla da Gerusalemme Est. Il piano per il mercato di Hebron si inserisce in questo disegno: consolidare punti di presenza e corridoi di controllo in modo da rendere impraticabile sul terreno qualsiasi soluzione che assomigli davvero a due Stati.
Nel 2017 la città vecchia di Hebron e la moschea di Ibrahim sono entrate nella lista del patrimonio mondiale in pericolo. Non è solo una questione di pietre antiche. È il riconoscimento di un tessuto urbano e umano che rischia di essere strangolato. La frammentazione della Cisgiordania in zone A, B e C, con quest’ultima sotto pieno controllo israeliano, ha permesso una crescita continua degli insediamenti: oggi circa cinquecentomila coloni vivono in Cisgiordania, tutelati dal codice civile israeliano e da una protezione militare capillare, mentre i loro vicini palestinesi restano sottoposti a regole eccezionali, limitazioni di movimento, espropri di fatto. Due popolazioni sullo stesso territorio, ma due regimi di diritto diversi: la definizione stessa di separazione strutturale.
Mentre l’attenzione internazionale è assorbita dalla guerra e dal cessate il fuoco a Gaza, la Cisgiordania continua a cambiare silenziosamente. Nuovi insediamenti, nuove strade, nuove aree interdette ai palestinesi. Le decisioni dei tribunali internazionali restano senza attuazione, ma sul terreno avanzano bulldozer e progetti edilizi. È questo il fronte invisibile del conflitto: ridisegnare confini e geografia per rendere impossibile, domani, ciò che oggi è ancora proclamato nei consessi diplomatici. Anche il recente riconoscimento dello Stato palestinese da parte di vari Paesi occidentali rischia di restare gesto simbolico, se non è accompagnato da una pressione reale perché la mappa non venga riscritta a forza di concessioni unilaterali e fatti compiuti.
Per gli abitanti palestinesi di Hebron e della Cisgiordania, gli insediamenti non sono un concetto astratto, ma la trasformazione concreta delle loro giornate. Terreni agricoli inglobati nelle aree controllate dai coloni, strade riservate, accessi limitati alla città vecchia, aggressioni documentate da organizzazioni israeliane per i diritti umani ai danni degli agricoltori. Ogni nuovo progetto edilizio, come quello del mercato, sottrae spazio fisico e margini di futuro. Al contrario, diversi governi israeliani hanno giurato che le grandi colonie non verranno mai smantellate. È un messaggio esplicito: ciò che oggi è costruito dovrà essere accettato domani come irrevocabile.
Il piano per l’ex mercato di Hebron riassume l’intero conflitto in pochi isolati di cemento: una città divisa, una memoria di sangue, un patrimonio mondiale messo in pericolo, un diritto internazionale ignorato. Ma racconta anche la scelta di fondo dell’attuale leadership israeliana: investire sul terreno in una logica di controllo permanente, invece che su un compromesso politico. Hebron diventa così il luogo in cui si misura la distanza fra le dichiarazioni sulla soluzione a due Stati e la realtà di un territorio sempre più spezzettato. Chi guarda solo a Gaza rischia di non vedere che il futuro del conflitto si gioca anche qui, tra i vicoli di una città antica dove un mercato chiuso da trent’anni sta per diventare, pietra dopo pietra, un altro muro fra due popoli che continuano a vivere fianco a fianco, ma sempre più lontani.