
di Giuseppe Gagliano –
Un rapporto classificato del Dipartimento di Stato usa ha rivelato che le forze armate israeliane hanno commesso “molte centinaia” di violazioni dei diritti umani nella Striscia di Gaza. Non si tratta di accuse generiche, ma di episodi che ricadono nel perimetro delle Leahy Laws, la legislazione che vieta la fornitura di assistenza militare a unità straniere coinvolte in gravi abusi. Eppure il documento ammette che nessuna unità israeliana sarà probabilmente sanzionata. Il motivo? L’enorme arretrato di casi da analizzare e un processo di revisione che, di fatto, protegge Israele da ogni conseguenza.
Dietro la forma tecnica del rapporto emerge la sostanza politica: il doppio standard con cui Washington applica le proprie regole. Quando si tratta di Israele, la legge si piega all’alleanza strategica.
L’ex funzionario Charles Blaha, che per anni ha supervisionato l’applicazione delle Leahy Laws, ha denunciato che la responsabilità rischia di scomparire “ora che il rumore del conflitto si sta attenuando”. In realtà, la questione morale è sempre stata subordinata alla questione geopolitica.
Le violazioni documentate sono gravi e precise. Dall’attacco con droni che ha ucciso sette operatori umanitari della World Central Kitchen, fino al cosiddetto “massacro della farina”, quando oltre cento civili palestinesi vennero uccisi mentre cercavano aiuti alimentari. In entrambi i casi, le coordinate delle missioni umanitarie erano state comunicate in anticipo alle forze israeliane. Eppure, la Casa Bianca si è dichiarata “non in grado di stabilire” se le armi usate fossero americane.
Un modo elegante per lavarsi le mani, continuando a garantire 3,8 miliardi di dollari l’anno in aiuti militari, più decine di miliardi aggiuntivi dal 2023.
Il rapporto mostra come la macchina amministrativa americana sia costruita per evitare qualsiasi rottura con Israele. Il gruppo di lavoro incaricato di valutare le violazioni include l’ambasciata USA a Gerusalemme e il Bureau of Near Eastern Affairs: due organismi storicamente filo-israeliani. L’ex funzionario Josh Paul, che si è dimesso per protesta, ha confermato che nessuna unità israeliana è mai stata penalizzata, nonostante “prove evidenti” di violazioni.
Si tratta di una immunità geopolitica che trasforma la legge in strumento di copertura, non di giustizia. Quando il cittadino palestinese-americano Omar Assad venne ucciso a un checkpoint israeliano nel 2022, Washington scelse di non intervenire. E lo stesso accadde nel caso della giornalista Shireen Abu Aqla, colpita da un proiettile israeliano: il rapporto originale del Dipartimento di Stato fu riscritto per escludere la premeditazione.
La vera chiave è strategica. Israele è per gli Stati Uniti un pilastro militare e tecnologico nel Medio Oriente, un laboratorio d’innovazione nella guerra urbana e un centro d’intelligence di livello globale. Rompere quel legame equivarrebbe a indebolire il controllo americano sulla regione. Così, ogni denuncia diventa tollerabile, ogni strage “non conclusiva”, ogni inchiesta “in corso”.
Questo meccanismo non è nuovo: è la stessa logica con cui Washington ha giustificato gli abusi in Iraq, gli omicidi mirati con droni, o il silenzio sulle carceri segrete della CIA. La legge vale finché non ostacola la strategia.
Ma questa protezione ha un prezzo. Israele, che un tempo si presentava come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, è oggi percepito sempre più come un attore che opera al di sopra delle regole internazionali, e questa percezione rischia di trasformarsi in isolamento politico. Per gli Stati Uniti, invece, il danno è d’immagine: come può Washington predicare diritti umani in Ucraina o a Hong Kong, se tace su Gaza?
In ultima analisi, il rapporto del Dipartimento di Stato non denuncia solo le violazioni israeliane, ma anche la complicità di chi le copre. E conferma che nella guerra per l’ordine globale la morale resta la prima vittima, e la verità, come sempre, una questione di convenienza strategica.











