di Giuseppe Gagliano –
Molto prima di mettere piede alla Casa Bianca, Donald Trump aveva già lanciato l’allarme: la Cina stava silenziosamente conquistando il Canale di Panama, quell’arteria transoceanica che collega due oceani, due mondi, due imperi. Non si trattava solo di uno slogan da campagna elettorale, ma della rievocazione di un incubo strategico americano lungo più di un secolo: perdere il controllo di una delle infrastrutture più vitali al proprio predominio navale e commerciale.
Oggi, in piena era di transizione geopolitica e multipolarismo incerto, il Canale torna al centro del grande gioco. Non più soltanto come simbolo di egemonia, ma come nodo in cui si intrecciano la logistica globale, le nuove rotte della Belt and Road cinese, i fallimenti delle ex potenze coloniali e le fragilità strutturali degli Stati-cuscinetto.
La volontà di aprire un varco tra Atlantico e Pacifico non è un’invenzione moderna. Già nell’Ottocento, i grandi imperi coloniali, in particolare la Francia napoleonica e la Spagna decadente, avevano avanzato ipotesi per una “via corta” attraverso il Centro America. La Colombia, all’epoca ancora padrona della provincia panamense, aveva ricevuto diverse proposte da tecnocrati europei. Ma fu la Francia, con il celebre Ferdinand de Lesseps, a trasformare il sogno in incubo.
La Compagnie Universelle du Canal Interocéanique, fondata nel 1880, si impantanò ben presto nella corruzione e nella giungla del Darién: malaria, dissenteria, frane e tangenti portarono al fallimento tecnico e finanziario dell’impresa. Quando il progetto venne abbandonato nel 1889, con migliaia di morti sul cantiere e capitali bruciati, gli Stati Uniti colsero l’occasione.
Con l’indipendenza forzata di Panama dalla Colombia nel 1903, ottenuta grazie all’appoggio diretto della marina statunitense, Washington impose un trattato capestro: Hay–Bunau-Varilla. Con esso, gli Stati Uniti acquisirono il controllo perpetuo di una fascia larga 16 km (la “Canal Zone”), in cui esercitavano sovranità piena, al pari di un protettorato coloniale.
La costruzione del Canale, completata nel 1914, divenne l’espressione ingegneristica del potere americano, un capolavoro idraulico e logistico che accorciava le rotte tra New York e San Francisco di 8.000 chilometri. Ma anche una spina nel fianco per i panamensi, che vedevano le navi transitare nella loro terra senza poterne condividere benefici e governance.
Per decenni, la “zona del Canale” fu una piccola America tropicale: scuole segregate, commissariati militari, quartieri residenziali per ingegneri bianchi. Un apartheid funzionale, mascherato da modernizzazione.
Solo nel 1977, dopo anni di proteste e pressioni internazionali, venne firmato il trattato Torrijos–Carter. Esso sanciva il passaggio progressivo della gestione del Canale a Panama entro il 31 dicembre 1999, in cambio della neutralità internazionale della via e del diritto statunitense a intervenire militarmente in caso di minaccia.
Il passaggio non fu né lineare né completo. Washington mantenne il controllo simbolico (e informale) su una parte dei centri decisionali. Le basi militari vennero smantellate, ma le reti commerciali, finanziarie e informative rimasero attive. Il Canale, pur panamense, continuava a rispondere alle logiche della sicurezza marittima americana.
Fu in questo vuoto che si inserì la Cina. Nel 1997, quando ancora mancavano due anni alla fine dell’amministrazione USA, la compagnia Hutchison Whampoa, attraverso le sue controllate, ottenne la gestione dei terminal portuali di Balboa (Pacifico) e Colón (Atlantico). Una mossa apparentemente commerciale, ma con implicazioni geopolitiche enormi.
Nel lessico della Belt and Road Initiative (BRI), il Canale rappresenta un nodo fondamentale: consente alla Cina di rafforzare le sue rotte commerciali transoceaniche, garantendo accesso controllato a entrambe le coste americane. Nessuna nave militare, nessuna base navale. Solo logistica, concessioni, e capitali. Ma la sostanza è la stessa.
L’allarme lanciato da Donald Trump, e da altri settori del Pentagono, nasceva proprio da qui: la paura che Pechino potesse utilizzare l’infrastruttura panamense come leva diplomatica, economica o informativa, proprio nel “cortile di casa” degli Stati Uniti.
Formalmente l’Autorità del Canale di Panama è autonoma, e risponde solo allo Stato panamense. Ma le sue fragilità sono evidenti: dipendenza da capitale straniero, limitate competenze tecniche, esposizione a lobby esterne. Il grande ampliamento del Canale, completato nel 2016, ne è la prova: il consorzio di costruzione includeva ditte spagnole, italiane, belga, con subappalti cinesi. E i debiti contratti da Panama per finanziare l’opera la rendono ancora oggi vulnerabile a pressioni esterne.
A ciò si aggiunge la carenza cronica di acqua, aggravata dai cambiamenti climatici, che limita la piena operatività delle nuove chiuse. Il Canale ampliato è tecnicamente più efficiente, ma più delicato: richiede gestione avanzata, tecnologie digitali e investimenti continui.
Mentre il mondo guarda alle chiuse, la giungla del Darién, al confine tra Panama e Colombia, resta una ferita aperta. È lì che si riversano ogni anno decine di migliaia di migranti in fuga da Haiti, Venezuela, Ecuador, Camerun. È lì che i cartelli della droga e i trafficanti di esseri umani trovano rifugio. È lì che l’assenza di infrastrutture, strade e sicurezza impedisce ogni reale integrazione continentale tra Nord e Sud America.
Il paradosso è evidente: un Paese che gestisce una delle vie commerciali più sofisticate del mondo, ma che non riesce a controllare 100 km di giungla interna. Il progetto di una strada interamericana continua ad arenarsi sul Darién. Troppi interessi, troppa criminalità, troppo disinteresse strategico.
Il Canale di Panama è oggi un campo di battaglia silenzioso tra Stati Uniti e Cina. Un’arena dove si misurano progetti infrastrutturali, modelli di governance, diplomazie parallele. Chi controlla il Canale non solo influenza le rotte marittime, ma può orientare gli equilibri tra le Americhe.
Panama, nel mezzo, barcolla tra l’ambizione sovrana e la subordinazione funzionale. Ogni nuova crisi globale, dallo Stretto di Hormuz a Taiwan, riaccende la sua centralità strategica. Ma la sua vera forza resta la stessa del passato: essere un passaggio obbligato. Ed è lì che, nel silenzio delle chiuse, si decide ancora una volta il futuro dell’ordine mondiale.