Panama. La Cina blocca la cessione dei porti alla statunitense Blackrock

di Giuseppe Gagliano

L’intervento della Cina sul progetto di acquisizione dei porti del Canale di Panama da parte di Blackrock segna un ulteriore capitolo nel confronto a distanza tra Washington e Pechino, laddove i terminal marittimi diventano frontiere mobili di influenza, e la concorrenza economica si mescola alla rivalità strategica. Apparentemente si tratta di una questione regolatoria, con l’autorità cinese della concorrenza che ha deciso di riesaminare i termini dell’accordo. Ma nei fatti,la decisione di Pechino di bloccare, almeno temporaneamente, l’operazione che avrebbe dato all’americana Blackrock il controllo di oltre 40 porti, tra cui quelli situati ai margini del Canale, è una risposta calibrata a quella che viene percepita come un’avanzata ostile, mascherata da iniziativa finanziaria.
Per comprendere appieno la portata dell’episodio, occorre inserirlo nel contesto strategico attuale. Il Canale di Panama non è solo un’infrastruttura cruciale per il commercio globale: è un nodo sensibile nella logistica militare e nella proiezione navale tra Atlantico e Pacifico. Gli Stati Uniti, pur avendone ceduto formalmente la sovranità, non hanno mai realmente smesso di considerarlo una propria estensione strategica. Le dichiarazioni di Donald Trump, tornato a insistere sulla necessità di “riprendere il controllo del Canale”, non sono frutto di nostalgia imperiale, ma indicano una linea precisa: contenere l’espansione cinese nelle rotte marittime globali, oggi più che mai priorità strategica americana, in un contesto dove la competizione navale si intensifica su scala mondiale.
L’acquisizione bloccata coinvolge attori chiave: CK Hutchison, conglomerato con sede a Hong Kong; MSC, colosso svizzero della navigazione; e Temasek, fondo sovrano di Singapore. Ma è Blackrock, con il suo 80% potenziale nella nuova compagine, ad aver attirato la luce dei riflettori. L’operazione avrebbe consolidato un asse finanziario occidentale con accesso preferenziale a snodi logistici vitali, mentre Pechino si vedeva sottrarre una leva importante in un’area dove ha investito fortemente, sia economicamente sia diplomaticamente, nell’ambito della Nuova Via della Seta.
La mossa cinese non è quindi solo reattiva. È difensiva, certo, ma anche segnale a chi pensa che l’arretramento economico cinese possa essere sinonimo di passività geopolitica. Non a caso, un portavoce del Partito comunista ha paragonato la cessione dei porti a “passare un coltello all’avversario”. Il fatto che il commento sia stato rimosso non ne attenua la portata simbolica: Pechino sta tracciando delle linee rosse e, stavolta, lo fa anche con strumenti della concorrenza e del diritto commerciale internazionale, terreno su cui finora ha giocato soprattutto l’Occidente.
La posta in gioco è triplice. Da un lato, l’equilibrio militare regionale: i porti del Canale potrebbero fungere da punto d’appoggio logistico per forze navali amiche di Washington, ponendo la Cina in una posizione più vulnerabile nel caso di escalation nel Pacifico o in America Latina. In secondo luogo, il controllo delle supply chain globali, dove la Cina cerca da anni di emanciparsi dal dominio infrastrutturale occidentale. E infine, la battaglia per l’influenza nel Sud globale, con Panama come ennesimo teatro: un’area dove la diplomazia del mattone cinese ha fatto scuola, ma che ora rischia di essere nuovamente terreno di scontro tra potenze.
L’andamento delle borse, con CK Hutchison in calo del 4,7% il 31 marzo e del 15% da inizio mese, fotografa bene l’incertezza creata dalla vicenda. Ma al di là degli umori finanziari, resta una certezza: nel mondo multipolare e frammentato che si va delineando, anche un contratto commerciale può diventare casus belli. E se i porti sono la pelle sensibile della globalizzazione, chi li controlla – oggi più che mai – detiene non solo un potere economico, ma una leva strategica globale.