Pashinyan a Roma: l’Armenia vuole la pace?

di Daniel Pommier

Tra pochi giorni giungerà a Roma in visita Nikol Pashinyan, attuale primo ministro della Repubblica armena. E’ prevedibile che la visita non avrà particolare eco nel nostro Paese, sia per il relativo disinteresse alle questioni di politica estera sia perché la grande maggioranza degli italiani non ha neanche una precisa idea sulla collocazione dell’Armenia. Eppure la visita di Pashinyan permette di riportare alla ribalta, dando all’Italia un ruolo positivo, una delle questioni più irrisolte e potenzialmente più pericolose dello scenario eurasiatico: il conflitto del Nagorno Karabakh.
Quando Pashinyan giunse al potere nel maggio del 2018, sull’onda della cosiddetta rivoluzione di velluto armena, ricevette un grande consenso anche a livello internazionale. Pashynian, giornalista di opposizione nato nel 1975 e quindi anche generazionalmente estraneo al sistema sovietico, è riuscito a demolire con un vasto movimento popolare il blocco di potere che dominava la Repubblica armena dai primi anni Novanta. L’Armenia è un Paese povero profondamente dipendente dalla Russia, con un sistema politico fondato per un quarto di secolo su un Partito-Stato. L’arrivo al potere dell’oppositore Pashinyan avrebbe dovuto rinnovare questo panorama politico stagnante, e avere conseguenze positive anche sul processo di pace per il conflitto del Nagorno Karabakh.
La questione è nota: l’Armenia tra il 1992 e il 1994 ha invaso e occupato la regione azerbaigiana del Nagorno Karabakh, nella quale vivevano le comunità armena e azerbaigiana, con una maggioranza della prima (con proprie forme di autonomia). Il proposito era di fonderla in una “Grande Armenia”. Il risultato fu l’occupazione della regione del Nagorno Karabakh e di sette altri distretti azerbaigiani, circa un milione di profughi interni azerbaigiani, una tregua militare non seguita da un vero accordo politico, la costituzione di un’entità separatista illegale, la cosiddetta “Repubblica del Nagorno Karabakh”, non riconosciuta da alcuno Stato al mondo, a partire dalla stessa Armenia.
Un totale pasticcio che ha precipitato l’Armenia nell’isolamento internazionale, nella dipendenza strutturale dalla Russia, nella presenza di un gruppo di potere legato ai “falchi” del conflitto. E mentre il vicino Azerbaigian, che aveva perso i suoi territori, fioriva economicamente grazie a una intelligente politica di sfruttamento delle risorse naturali surclassando, anche dal punto di vista militare, l’Armenia.
Pashinyan avrebbe dovuto smontare tutto questo, e un sincero entusiasmo contagiò l’Azerbaigian ed anche l’OSCE, col cosiddetto “gruppo di Minsk”, a cui è demandata la mediazione, con l’arrivo del nuovo governo. Negli ultimi tempi Pashinyan ha cambiato rotta, tornando a esprimersi con argomentazioni ultranazionaliste e aggressive rispetto al tema del Nagorno Karabakh. Ha colpito tutti gli osservatori l’affermazione di Pashinynan della scorsa estate: “Il Nagorno Karabakh è Armenia. Punto”.
Un cambio di posizione che lascia poco spazio alla mediazione. Una posizione tipica di chi, avendo pochi argomenti politici, vira sul nazionalismo. E da qui si può costruire un ruolo positivo della comunità internazionale e in particolare del nostro Paese, che gode di un’ottima immagine e di ottime relazioni in tutto il Caucaso. I contenuti della mediazione sono evidenti: bisogna partire dalle risoluzioni delle Nazioni Unite che confermano l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, operare per il ritiro delle forze armate dell’Armenia dai territori occupati, il ritorno dei profughi interni, assicurare meccanismi che, nel quadro dell’integrità territoriale, garantiscano a tutta la popolazione forme di autogoverno ed autonomia, come nel caso di rispettivi modelli di autonomia in Italia, in particolare quello del Trentino Alto Adige. Il nostro governo e la nostra diplomazia possono cogliere l’opportunità della visita del primo ministro armeno per rilanciare politicamente la questione di un accordo. Ne avrebbero beneficio gli attori istituzionali, le popolazioni coinvolte e il nostro Paese che assumerebbe un protagonismo positivo in un’area strategica.