Pena di morte

di C. Alessandro Mauceri –

pena di morteQualche mese fa ha destato scalpore la notizia dell’esecuzione di un condannato a morte negli Usa, “freddato” dal boia dopo che il sistema “ufficiale” aveva fatto cilecca.
Le esecuzioni capitali sono state sospese per qualche mese, giusto il tempo di far calmare le acque, poi sono riprese.
A dire il vero, anzi, pare che negli Usa si stia cercando di recuperare il tempo perduto: in 24 ore sono state eseguite ben tre condanne a morte, in Georgia, nel Missouri e in Florida. Quest’ultima, tra l’altro, eseguita nonostante i ripetuti appelli affinché venisse sospesa a causa del basso quoziente intellettuale del condannato (secondo alcuni si trattava di una persona incapace di intendere e di volere, ai limiti del minorato). Non è servito a niente: negli Stati Uniti d’America uccidere una persona riconosciuta colpevole da una Corte di giustizia è “politically correct”.
In questo modo però gli Usa hanno dimostrato che il loro modo di considerare la Giustizia (quella con la G maiuscola) non è diversa da quella di Paesi considerati molto meno democratici e spesso sotto accusa proprio per il loro scarso rispetto dei diritti umani. Paesi come la Cina (dove addirittura non è dato avere un dato ufficiale sul numero delle esecuzioni capitali) o i Paesi mediorientali, che spesso riempiono le copertine dei giornali occidentali con titoli a sei colonne che condannano l’efferatezza del loro sistema giudiziario e le pene inferte ai colpevoli.
In realtà nella maggior parte dei Paesi del mondo la pena capitale sta diventando un triste ricordo. Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International, nel presentare il rapporto sul numero di pene capitali applicate nei vari Paesi del mondo nel 2013, ha detto che “trent’anni fa il numero dei Paesi che avevano eseguito condanne a morte era 37. Siamo scesi a 25 nel 2004 e a 22 l’anno scorso. Nell’ultimo quinquennio, solo 9 Paesi hanno fatto ricorso anno dopo anno alla pena capitale”.
Ciò che avrebbe dovuto destare stupore, dopo aver letto il rapporto, sono due dati: innanzitutto che tra i nove Paesi che hanno fatto ricorso alla pena di morte, oltre a nazioni tacciate di essere antidemocratiche e dove il rispetto dei diritti umani è stato spesso violato, spiccano, e a pieno titolo, gli Stati Uniti d’America e l’Arabia Saudita, al centro dell’economia di mezzo mondo e spesso visti da molti Paesi partner come opportunità di sviluppo. Il secondo aspetto, ancora più allarmante, è che, se è vero che il numero dei Paesi che hanno fatto ricorso alla pena capitale è diminuito, le esecuzioni di condannati a morte sono invece aumentate e non poco: il numero delle persone finite nelle mani del boia è aumentato del 15%.
Per non parlare dei metodi utilizzati. Negli Usa ha fatto scandalo (ma giusto per il tempo tra una puntata del famoso serial TV e la finale di campionato, poi non se ne è più parlato) il metodo adoperato per un’esecuzione, in molti altri Paesi sono considerati “legittimi” e “legalmente corretti” metodi di esecuzione come la decapitazione, la fucilazione o l’impiccagione.
Senza considerare che in molti Stati la pena di morte è ancora circondata dal segreto: solo a volte e a “cose fatte” le autorità informano le famiglie e gli avvocati.
La domanda è sempre la stessa e da molti millenni: è giusto uccidere una persona per i reati commessi e, ammesso che lo sia, per quali colpe una persona può essere autorizzata ad ucciderne un’altra? Spesso le condanne sono state eseguite a causa di crimini come la rapina o reati connessi alla droga se non addirittura reati economici e atti che non dovrebbero essere neanche considerati reati, come l’adulterio o la blasfemia. In alcuni casi poi si è fatto ricorso alla vaga definizione di “reato politico”, ossia la manifestazione del libero pensiero.
Ciò che dovrebbe sorprendere è che molti, pur osannando il rispetto del diritto alla vita, una volta nell’anonimato di un sondaggio pubblico, si dicono favorevoli alla pena di morte. Recentemente in Francia, dopo, il trionfo di Marie Le Pen, avrebbero dovuto destare scalpore i risultati del Baromètre de la confiance publique, l’annuale inchiesta demoscopica, da cui è emerso che ben il 50% degli intervistati vorrebbe il ritorno alla pena di morte. Non solo, ma risultati analoghi sono emersi anche nel Regno Unito, dove oltre la metà degli inglesi si è detto favorevole all’uccisione per reati sessuali o legati al terrorismo.
Forse, però, la vera causa di queste “voci” non è da cercare nel fatto che gli europei stanno diventando come i texani (il Texas è lo Stato americano che vanta il primato di esecuzioni), ma nella delusione di vedere molti reati gravi (basti pensare ai condannati per reati di camorra o di terrorismo ancora a piede libero) restare impuniti o alle pene inferte a molti personaggi politici condannati per reati anche gravi (come il concorso in attività mafiosa e regolarmente liberi). Non è un caso se il 40% dei francesi ha dichiarato che “le democrazie non sanno mantenere l’ordine”.
Ma quando le democrazie non sanno più “mantenere” l’ordine, il rischio non è la decisione di ricorrere alla pena di morte. Il rischio, e la storia lo prova, è che, nascondendosi dietro l’alibi della necessità di ripristinare l’ordine, si adottino metodi di gestione della cosa comune tutt’altro che democratici .